il cappello giallo
Il cappello giallo non era al suo posto, ma gli uomini sono impermeabili all’umidità dei sentimenti e ciechi dinanzi l’ovvio.
Le stoffe lacerate, le piume per aria, cosicché sarebbe stato difficile riconoscere i luoghi. Si insinuò dentro l’armadio, tra le lenzuola riposte in fretta. Sul pavimento un vassoio che non era d’argento, non era nulla, io non c’ero. E lui che urlava alle mie tele, ai miei colori, al bastone di un vecchio. Urlava il mio nome.
E lui che urlava alle mie tele, ai miei colori, al bastone di un vecchio. Urlava il mio nome.
Io e il mio cappello eravamo in spiaggia. Gli ultimi granelli di sabbia tra le dita dei piedi, il costume bagnato, freddo, ad arrossarmi la pelle. Il mio cappello giallo ed io. Non avevo voglia di discutere con lui, era meglio parlare alla corda che mi separava dalla discesa ripida. Mi diceva: attenta!
Era meglio discutere con gli ombrelloni che già erano chiusi, chiaro sintomo di fine stagione. Rimanevano come ballerine sulle punte di un orizzonte in via di scadimento.
Equilibrismi. Io come loro.
Le cicale finalmente erano scoppiate, le formiche (che ti vengono in mente subito dopo) rintanate nei loro efficienti cunicoli. Nel cielo i gabbiani in formazione d’attacco, che non sono altro che uccelli da rapina.
Qual era il mio posto, considerato che non ero dove lui si aspettava che fossi?
Togliere le scarpe, e non vedere né i cocci di vetro, né le pietre aguzze.
Continuano a rubare auto e sentimenti. Ladri.
Eravamo lì, la mia borsa zeppa di oggetti inutili, (in fondo basterebbe così poco per vivere, eppure ci facciamo allungare le braccia trascinando pesi, spostando valigie colme di nulla) e il mio cappello.
Era tempo di concludere il trasloco delle banalità. Avrei lasciato la borsa in cabina. Avevo deciso mentre osservavo il mare dalla mia sdraio gialla.
Alle diciannove si chiude, prego mettere via tutto e dirigersi fuori. Con il bagnino non puoi contrattare, del resto neppure se stai annegando puoi dire: mi lasci affogare in pace. Ti afferrano e ti buttano come pesce da congelare sul pattino e ti fai pure male, boccheggi mentre stanno a guardarti stanchi e soddisfatti.
Io non ho assolutamente intenzione di annegarmi, tranquilli, è che non sopporto che mi impongano alcunché.
Signora il suo cappello è elegante.
Si? Trova?
Togliere le scarpe, e non vedere né i cocci di vetro, né le pietre aguzze. Continuano a rubare auto e sentimenti. Ladri.
Lo avevo lanciato senza pensarci due volte, aveva volteggiato stupito, come solo un cappello può essere quando perde il suo punto naturale d’appoggio e poi, come una nuvola bucata, era caduto in mare: plof! Inzuppato come un biscotto in una tazza.
Ero libera. Avevo scrollato la testa come fanno i cani usciti dall’acqua. I miei capelli avevano riconquistato spazio, respiravano.
Per un istante persino gli ombrelloni si erano librati in aria, sulle punte, sospesi sulla sabbia, danzavano in linea con l’orizzonte che aveva riacquistato colore.
Le tele delle sdraio erano minuscole vele attratte dal mio cappello, un capitano tra i flutti, ansiose di raggiungerlo.
Signora stiamo per chiudere. Forse si era assopita.
Assopita? Un modo gentile per dirmi che dormivo della grossa.
L’era volato il cappello, ecco, lo prenda. Si è un po’ rovinato.
Peccato, le stava molto bene.