Dieci motivi per cui bisogna perdere un volo una volta nella vita
Avete perso un volo aereo? Non è un dramma.
Non voglio definirla una guida di sopravvivenza. È un decalogo di nome e di fatto, questo, una lode in dieci punti di ciò che di buono possiamo trarre quando, dopo una corsa contro il tempo nei corridoi di un aeroporto, ci troviamo con il gate ormai chiuso.
Mi è capitato di recente in una città – Lisbona, stupenda – dove ero solo di passaggio, di ritorno dal mio mese nelle Azzorre. Né qui né altrove, mi viene da dire, per citare un libello che ho apprezzato, ma che parla di Bari e che quindi c’entra poco o niente.
- La prima reazione è un senso di disorientamento diffuso. Col senno di poi, però, si impara a rivalutarlo. Così anche questo spaesamento si rivela essere un’emozione forte, di quelle che ogni tanto servono, in una vita sempre più incatenata da cinture di sicurezza. Non per niente, un video racconta di come l’uomo preferisca il dolore alla noia.
- L’arte di arrangiarsi si applica a ogni campo dell’esistenza, a partire dalla cucina, quando a fine settimana è il momento di riciclare gli scarti per formulare un pasto completo da cima a fondo. Saper mettere una toppa e continuare a camminare è un’arte e come tale necessita di talento ma anche di tecnica. Ma soprattutto, smettiamola di usare il verbo arrangiarsi dandogli una connotazione negativa. Qui si tratta di reinventarsi!
- Tutto quello che c’è nel mezzo, nel buco nero fra il posto che lasciamo e quello dove non siamo riusciti ad arrivare per tempo, è una parentesi di casualità che se avessimo preso il volo non avremmo mai potuto vivere. Sono scoperte non previste, quindi forse le uniche vere scoperte. Io, ad esempio, mi sono trovata a passeggiare per Marsiglia cercando di sfuggire a marpioni avanti con l’età e ho scoperto l’esistenza, in varie città francesi, di caricatori per cellulare che funzionano con l’energia di una ciclette che l’avventore deve pedalare. Il primo consiglio che mi è stato dato in aeroporto, però, è stato di approfittare dei sessanta minuti successivi alla partenza del mio volo per comprare un biglietto per il giorno dopo a 100 euro invece che 250. Fossi stata una persona più impulsiva, magari anche in preda al panico, l’avrei fatto senza pensarci. E invece ho detto “tanti saluti e grazie” al simpatico signore e mi sono arrovellata pensando a un piano B. È bello avere sempre un piano B, è bello non averlo e improvvisarlo, è bello sentirsi mutevoli ancor più che flessibili! (Fatto sta che il volo per Marsiglia costava 20 euro e che anche il pullman che mi ha portato in Italia aveva quel prezzo e… tante piccole esperienze in omaggio)
- Ho sonnecchiato su un pullman che alle tre di notte mi ha fatto svegliare a Milano. Lo confesso come una voyeuse: ho spiato la città mentre non sapeva di essere vista. Alle tre anche le metropoli dormono e spuntano fuori le… persone. Non più massa, ma individui con caratteristiche uniche, che si contano sulle dita di una mano ed è quasi obbligatorio lo scambio umano. Non importa la classe sociale di appartenenza, l’etnia, la religione, il colore dei capelli. Quelle ore si condividono con senegalesi, maghrebini, biotecnologi, barboni, viaggiatori senza meta che hanno dimenticato anche il punto di partenza: fuori dalla stazione si attende tutti insieme che le porte si aprano e ci sottraggano al gelo di una città in cui non avevamo mai notato l’assenza di panchine pubbliche, fino ad ora che ci accorgiamo di quanto faccia freddo e di quanto stancante sia stare in piedi.
- Esercizi di fiducia. Nella maggioranza dei casi, un volo perso significa anche una notte in aeroporto. Quale migliore occasione per fare improbabili esercizi di fiducia? Non sono proprio comodi per la schiena, ma riescono bene in strutture del genere: chi riesce a dormire più di due ore di fila, abbarbicato sul proprio trolley e coperto dalla giacca a vento, darà così prova di un infallibile residuo di fiducia nell’umanità. Era la mia prima notte in aeroporto e mi sono accorta di quanto il controllo continuo faccia degli aeroporti un posto abbastanza tranquillo dove passare la notte. Ma sappiamo che il timore dell’altro non è poi così razionale, quindi qualche esercizio di fiducia ogni tanto non nuoce, per ricordarci che per la maggior parte siamo poveri indifesi in viaggio sulla terra.
- La connessione internet scarseggia. Disintossichiamoci dai social. Guardiamoci intorno, ricominciamo a chiedere indicazioni alle persone invece che a Google Maps, Tripadvisor e Siri. Io mi diverto tantissimo e lascio carta bianca alla smania di comunicare anche se mastico male una lingua, se mi manca qualche parola essenziale, e mi rasserena vedere che alla fine in qualche modo mi faccio capire. Nel mio caso, anche volendo, non avevo proprio linea, a causa di alcuni imprevisti: niente internet, niente chiamate, niente sms. Ovviamente sono andata incontro a tutte le rogne del caso: dovendo approfittare della connessione wi-fi del pullman, che però era anche il sostitutivo della mia camera da letto, ho sottratto tempo al sonno per cercare un modo per tornare a Padova prima possibile a quell’orario improbabile, le tre di notte appunto. C’è stato un momento in cui il pullman stava per ripartire da Milano, io dovevo scendere ma non avevo ancora “bloccato” abbastanza informazioni per capire come proseguire il viaggio. Mi mancavano ticket, screenshot di mappe e di orari, ho cercato di calibrare la rapidità delle dita nel muoversi sul cellulare e la lentezza, ma non troppa, nello scendere dal pullman. Anche qui serve una certa abilità, checché se ne dica.
- Apprezzare ciò che si ha. Faccio un esempio col cibo: se ci si ritrova a passare ore extra in aeroporto, le scelte sono due. Si possono divorare le riserve in borsa ed eventualmente intaccare qualche presunto souvenir gastronomico, oppure vuotare il portafoglio al duty free. Nei miei tre giorni di viaggio collaterale e non previsto, ho dato fondo al mio formaggio stagionato portoghese assaporandolo come fosse il miglior formaggio sulla terra. Invece, era soltanto l’unico.
- Pazienza: la tecnologia ce ne sta privando, inculcandoci smanie di rapidità ed efficienza continua. Ma quando per un minuto di ritardo ci troviamo a dover escogitare un piano per tornare a casa nel modo più economico possibile, l’unico compromesso possibile sarà armarsi di santa pazienza e lasciarsi trasportare da pullman, bus, o fare strani giri con l’aereo. Fare un respiro profondo e dimenticare la fretta. Il mio viaggio di ritorno alla fine ha richiesto quattro giorni, che ho vissuto in una sorta di bolla extra-spaziale ed extra-temporale, un nonluogo alienante e ripetitivo, nel caso dell’aeroporto, o in un guscio che ho chiamato casa, ma che era soltanto il mio piccolo zaino rosso. Per un volo perso, ecco che vinco una notte di bivacco, una giornata da turista per caso, una nottata in pullman con tanto di passeggiata tutt’altro che romantica fino all’alba, una fila in attesa che aprisse la stazione, poi che aprisse il primo bar, una fila per entrare sempre più dentro qualcosa dopo che si è stati per tante ore fuori. Poi altri due treni. Certo: un volo diretto sarebbe stato più comodo, ma ho colto l’occasione per stuzzicare la pazienza, visto che non capita tutti i giorni.
- Okay, è normale: nei primi minuti tutti cercherete il modo più rapido per rientrare a casa e bramerete soltanto la vostra camera da letto. Ma, una volta entrati nella filosofia dell’avventura, in tutti i modi si vorrà ritardare il momento dell’arrivo. Perché una volta raggiunta la meta bisogna inventare qualcos’altro, altri obiettivi da raggiungere, e non è detto che sia così facile. Ma non starò a parlare del viaggio e dell’attesa del viaggio e del raggiungimento della propria meta, perché c’è chi lo ha fatto meglio di me.
- Reinventare, reinventarsi. Chi avrebbe mai detto che io…? Non importa: c’è un momento per tutto e tutti abbiamo la libertà per farlo. In viaggio più che mai: siamo viandanti, vagabondi, pellegrini in cerca di qualcosa, tutti uguali, tutti diversi, sconosciuti eppure banalissimi e fratelli. Basta non prendersi troppo sul serio, e anche questo lo si impara on the road.
Una cosa che mi ha spiazzato è stata l’empatia delle persone che ho incontrato. Alcune in viaggio come me, altre semplicemente impegnate nella loro quotidianità. Una mela, un caffè, una gomma da masticare, un pezzo di strada insieme, un’indicazione o un suggerimento, sono tantissime le persone di ogni provenienza sociale, geografica, di ogni età e religione che mi hanno lasciato qualcosa, che hanno voluto condividere con me un pezzetto di niente, più per la voglia di donare che per il desiderio di saziare un bisogno concreto. Questi doni semplicissimi mi hanno riempito il cuore e mi lasciano sperare che, per quanto si vogliano costruire muri ovunque, finché ci sarà anche una briciola di empatia verso i viaggiatori potremo dirci ancora umani.