“Vieni a salvarmi”, Andrea Laszlo de Simone
Un filo invisibile sembra congiungere molte delle cose che ho amato. La nascita di questa percezione ha coinciso con la scelta di dedicare tre mesi dopo la laurea triennale a un corso di editoria che, in tutta onestà, non mi ha certo aperto le porte della Einaudi. In compenso mi ha portato a conoscere molti romanzi e autori, sviluppando una curiosità meno velleitaria e isolata verso la narrativa, ma non solo. Ho cominciato a intuire ciò che mi piace e a tracciare così una rete di oggetti a me cari.
Fra le piccole meraviglie che vado scoprendo di giorno in giorno, annovero le canzoni di Andrea Laszlo de Simone (forse l’unione dei nomi di più artisti), che sono diventate una parte consistente della colonna sonora dell’ultima settimana. Di fatti, la canzone “Vieni a salvarmi” è uscita il 26 aprile, ma l’ascolto prolungato della stessa traccia mi ha immersa in una dimensione filosofica, ma al contempo sconsolatamente ironica, dei testi di questo cantautore. Il disco “Uomo Donna” uscirà il 9 giugno, e se dico testi è solo perché ho ascoltato le canzoni degli album precedenti “Ecce Homo” e “Sparite tutti”. Di questo autore si sa poco, e forse è meglio così. Mi ha fatto molto piacere che da alcuni sia stato accostato a un grande musicista semi-sconosciuto, quale resta a quasi quattro anni dalla sua morte, Claudio Rocchi.
Ne ho approfittato per stilare alcune delle somiglianze che emergono fra “La realtà non esiste”, forse la canzone meno sconosciuta di Rocchi e “Vieni a salvarmi”, per ora la sola anteprima presentata del disco di prossima uscita di Laszlo de Simone.
Queste due canzoni presentano notevoli affinità, non tanto nella linea melodica, o nella forma testuale. Di primo acchito, potrebbero sembrare assai diverse, ma due stili molto distinti celano un messaggio condiviso. Entrambe esprimono la presa di coscienza della debolezza della realtà, che nello sguardo di Rocchi è un velo schopenhaueriano infranto dalla possibilità di creare.
Ho cominciato a intuire ciò che mi piace e a tracciare così una rete di oggetti a me cari.
A chi è rivolto l’urlo disperato e travolgente del protagonista della canzone? L’assenza di una qualsiasi divinità come interlocutore ipotetico mette in luce quanto l’urlo sia un’ammissione di incomunicabilità.
Per queste ragioni si potrebbe sostenere che le due canzoni siano quasi complementari, l’una invita a sbarazzarsi di preconcetti passivamente assimilati, l’altra a restituire un valore intimo e speciale a gesti banali, come una risata, o un abbraccio.