Senza parole né alcun coraggio
Nelle tue parole, che ho immaginato piene e dritte, ho trovato un coraggio che andavo cercando, il gesto naturale e riflettuto dell’affermazione di sé. Può essere frainteso come una correzione. Adesso, fuori dalla finestra, il sole brilla indenne e di mia sorella Lorenza, non mi rimane che un vecchio nome.
In autunno, le foglie che cadevano a terra diventano una crosta protettiva, e seduta su una panchina studiavo la forza silenziosa dei pioppi. Ora ripenso alla luce che disegnava i nostri corpi. Le nostre conversazioni regolavano maree di suoni nelle passeggiate infinite, fino a dove la pianura era già stata mille volte un’aiuola coperta di papaveri e fiori di campo. Lì mia sorella mi ha confessato tutto. Mentre parlava, provavo un insostenibile senso di inadeguatezza, che con il passare del tempo maturò nel riconoscere, con un velo di rassegnazione, che gli equilibri del nostro legame non si sarebbero ricomposti.
Una frenesia tutta infantile mi portava a cercare nelle nuvole la sagoma di un ciclope o di un dinosauro, lasciando che il futuro confluisse nel ricordo. La mia leggerezza era finta, bonaria e devastante. Eppure, non provavo il desiderio di sapere, e negli anni, tornare a meditare sul suo discorso non mi avrebbe reso migliore. Mi dimostrò invece quanto stinta fosse la mia capacità di capire un’altra persona, i suoi moti d’animo, i suoi desideri. Invece di avvicinarmi, mi avrebbe allontanato da lei. Nella mia testa, ti rimproverai di non aver scelto una migliore confidente. Non lo dissi, sperando te ne saresti accorta e per una reticenza affine alla mia, non me lo dicessi.
In autunno, le foglie che cadevano a terra diventano una crosta protettiva, e seduta su una panchina studiavo la forza silenziosa dei pioppi.
Quando il peso delle parole non dette si scontrò con la tua decisione, mi sentii esposta al giudizio sottile del “per sempre”. Non era importante che io fossi d’accordo su come Lorenza si sentisse. Eppure, mi sentii invidiosa di lei, come se fosse stata capace di sbarazzarsi dei difetti della persona che avevo sempre conosciuto arrivando a frammentare mia sorella in lei e te. Mi sentivo incollata ai miei vestiti, insieme a strati di vergogna e di morbosa indulgenza, che stipulava in me un patto di ipocrita tolleranza. Mi sentii coinvolta in una questione che non mi riguardava, sapendo che avrei dovuto cercare dentro di me un’accondiscendenza decisa e interessata a conoscere. Dissi soltanto “capisco bene”, ignorando gli ampi margini di incomprensione che provavo. Cercavo una forma stabile per un sentimento che diventava burrasca e scivolo, ed era l’imposizione di una libertà legittima, rifiorita, che mi colse impreparata. Mi sono seduta sulla panchina, oggi, cercando di nuovo la misura fra me, lei e te, decisa a ripercorrere il senso di vertigine, le pietre, il dolore sul quale hai camminato, in completa solitudine, fino a qui.
Mi sentivo incollata ai miei vestiti, insieme a strati di vergogna e di morbosa indulgenza, che stipulava in me un patto di ipocrita tolleranza.
Dopo aver ascoltato ancora qualche parola lontana, anch’io sola, sono tornata a casa, lasciando che un’acre e totale accettazione mi riempisse la bocca. Ora come allora, non sapevo parlare, nascondendomi dietro la inesatta consolazione che non sarebbe bastata alcuna parola.