Breve storia indecorosa di nasi, cani e fazzoletti
Infilo la mano destra nella tasca dei pantaloni. Niente. Manco nella tasca sinistra. Non ci infilo la mano dentro, ma lo sento al tatto che è vuota. E poi tanto non ci metto mai niente nella tasca sinistra. Costringo il naso in una innaturale torsione occlusiva e immagino un ipotetico verbale di perquisizione: tasca destra numero uno fazzoletto di carta (magari), numero uno chiave singola di cui il perquisito non ricorda la funzione, numero due scontrini del bar, numero uno palla di carta maciullata in lavatrice, numero uno pastiglia di cui il perquisito non ricorda funzione, numero uno pila elettrica marca Energizer di cui il perquisito dichiara l’esaurimento e suggerisce l’installazione di nuovi tubi di raccolta di pile esauste, che quando servono non si trovano mai; tasca sinistra: niente. Però io adesso sento la gocciolina sull’anello della narice. Il punto di non ritorno. Torcere il naso non ha più senso. Tirare su è addirittura controproducente. Devo trovare un fazzoletto o saranno guai. Mi butto sul vialetto che porta al parcheggio. Ce la posso fare. Il cane è bianco e il guinzaglio nero. Mi abbaia e si sporge fino a essere richiamato indietro dalla corda che lo tiene avvinto alla padrona. Che cazzo ti ho fatto? Che motivo c’è? Manco ti stavo considerando, quadrupede. É un fifone, esclama la ragazza. Una che deve soffrire molto il freddo, a giudicare dagli strati accatastati sull’esile corpo. Sono tentato di chiederle un fazzoletto. Lo sguardo del cane mi fa desistere. Fifone. Mah, sarà.
Questa cosa di abbaiare preventivamente l’ho già sentita ma non mi convince mica. Picchietto sulla narice esterna. Non c’è un motivo logico per farlo, lo so, ma la situazione si è fatta ormai disperata. Ad ogni modo, e mi riferisco al discorso della paura, sarebbe come se… aspetta che ci penso. Sì ecco: allora, quando ero bambino al mio paese c’era sto tizio di un anno o due più grande di me. Girava con una bici per le quattro vie del paese e quando mi incrociava mi diceva cose poco carine del tipo frocetto, merdina, sei brutto come la fame e altri epiteti che considero e credo anche allora consideravo e credevo ingenerosi oltre che alquanto maleducati. Fasulli o meno, questi aggettivi e la mole di chi li pronunciava, mi mettevano una certa soggezione. Che avrei dovuto quindi fare secondo la logica del cane fifone? Agire preventivamente? Dargli del figlio di scrofa prima ancora che aprisse bocca? Suggerirgli in modo sgarbato di mangiare meno merendine? Ecco, io non credo si sarebbe rivelata una strategia intelligente.
Apro la macchina. Rovisto con una mano soltanto, che ormai l’altra la devo tenere a occludere le narici. Tascone portiera niente. Cruscotto manco per le palle. Possibile non ci sia un cazzo di fazzoletto? Questa è ormai una situazione di panico, altro che il cane. Che poi i cani al paese non avevano paura di niente. Manco i gatti, che teoricamente avrebbero dovuto avere paura dei cani, mostravano timore nei confronti degli arcaici nemici. La verità è che in paese è sempre esistita una squadra di gatti scelti esperti e codigni, una sorta di pasdaran felini, con il compito di istruire i cani giovani e irruenti sui comportamenti che nella vita non avrebbero dovuto tenere. Avevano metodi cruenti, ma devo dire che la convivenza ha funzionato per secoli. I cani poi non è che andassero sempre d’accordo tra di loro, ma non erano mica terrorizzati. Il cane (livello pedigree: sotto le zampe) dei miei nonni ad esempio detestava un dalmata che abitava dieci case più su. Il motivo dell’odio non lo so. Forse lotta di classe, forse il dalmata era gobbo e quello dei miei nonni del Torino. Rognavano un po’ quando sentivano nell’aria la puzza dell’altro. Tutto qui. Come detto: senza paura.
Ma magari è proprio come dice la padrona, magari i cani a forza di vivere con noi hanno fatto proprio il destino di apparenza e fragilità della gente di oggigiorno. Abbaiare per primo, dimostrare sempre e comunque, fingere alla bisogna, vincere per non dovere rendere conto a nessuno. Lo facciano noi, a modo loro lo fanno anche loro. Pore bestie che siamo.
Alla fine ho fatto di necessità virtù. Le mascherine a qualcosa servono ancora. Non dico le FFP2, troppo rigide, ma le altre possono essere tranquillamente utilizzate in caso di necessità. Ora non è il caso di lasciarla in auto sto schifo di mascherina, ecco. Esco e mi dirigo verso il cestino.
Dietro un’auto parcheggiata mi attende il latrato acuto del botolo bianco. Tira il guinzaglio e così facendo fa cadere qualcosa dalla mano della padrona.
É un fazzoletto.
Che cazzo, Luna. Dice lei.
Che cazzo, Luna. Dico io.