Il chitarrista della notte
Sono venuto su in un quartiere difficile tra ladruncoli, tossici, spacciatori e qualche assassino. Abitavo in un palazzone a cinque piani in cui vi erano tanti appartamenti e decine di bambini che tenevano vivo quell’enorme ammasso di cemento. Quando non avevamo troppo da mangiare, assieme ad altri amici razzolavamo per i campi rubando ortaggi, galline e uova. In quella palestra che è la strada, impari in fretta come si tira a campare, e tutti quei ceffi che la riempiono sono esempi a cui strappi qualche insegnamento.
A dodici anni ce ne stavamo già a fumare e commentare quello che ascoltavamo alle radio pirata di cui si era in pieno boom, ogni tanto vedevamo qualche immagine alla televisione in qualche bar che aveva la fortuna di potersi permettere il tubo catodico. Il potere operaio stava facendo sognare chi sperava in una rivalsa dei più deboli. Le ali più estreme uccidevano, sequestravano in nome della giustizia e qualcuno del nostro gruppo, da grande, avrebbe voluto unirsi a loro.
Io in realtà non amavo unirmi alla massa, avevo le mie idee di uguaglianza ma farmi catalogare, proprio no, non mi piaceva. Fin da piccolo ho tenuto dei diari in cui scrivevo e scrivevo, di tutto e di più. Avevo anche dei testi che un giorno avrei voluto musicare. Mi ero avvicinato al punk, quella musica ribelle fatta per chi voleva rivoltare il mondo sottosopra. Dopo scuola, appoggiavo la cartella in un angolo ed alzavo il volume dello stereo. Saltavo sul letto e facevo finta di cantare, emulando quei folli frontman. In tranche una volta ruppi anche la mia chitarra che stavo imparando a strimpellare. Non appena lo feci, mi misi a piangere, avevo fatto una cazzata da idiota, con quali soldi avrei potuto ricomprarla?
Il mio amore per la musica mi fece vivere un’esperienza particolare, tenevo un programma dalle dieci di sera a mezzanotte, in cui parlavo di cantanti e gruppi emergenti e nel silenzio della stanza raccontavo di me e di tutti quelli come me che da adulti avrebbero fatto il culo alla vita. Perché tutti da ragazzi non guardiamo il dito ma la luna, in cui ci specchiamo e alla quale affidiamo le nostre speranze.
Intanto avevo anche trovato lavoro, e coi primi soldi andai immediatamente a comprarmi una nuova chitarra. Erano passati dieci anni da quando avevo sfondato quella vecchia ed era ora di rimettermi in moto per dar un soffio vitale a tutto quello che avevo appuntato in quel castello di quadernoni. Il mio ambito occupazionale mi permetteva di girare per lo stivale, di stare a contatto con molta gente, di ammirare paesaggi, albe e tramonti. Di sera poi mi chiudevo a chiave nella stanza dove soggiornavo e iniziavo a suonare perdendo il senso del tempo e di quante ore stessero passando. Ogni mattina aveva preso forma una canzone nuova, sempre diversa. Poi rimettevo a posto la chitarra e riprendevo la marcia. Ero un vulcano di emozioni, di parole e note che vomitavo fuori senza fermarmi mai. Lo faccio ormai da trent’anni e ho la stessa passione di quella che mi prese il primo giorno.
Le mie canzoni hanno dentro tutto il mio trascorso, le hanno influenzate gli anni ’80, ’90 e adesso il nuovo millennio. Ci sono gli amori, le delusioni, le vittorie e le sconfitte. C’è tutto insomma.
Quella che avete letto è la storia di uno dei tanti ragazzi nati su questa Terra che ha dato voce alle proprie emozioni. Questo ragazzo, oggi uomo, ogni giorno per quasi 50 anni, ha scritto una canzone ed oggi dentro casa sua io le sto ascoltando. Lui non lo sa, non c’è, dicono sia andato via senza lasciare tracce. Nel 2005 si è come spenta la luce quando, i pochi punti fermi, i porti sicuri che tutti abbiamo, lui li ha persi uno dopo l’altro. Come se avesse subito una punizione per chissà quale colpa.
La prima fu la mamma. Tutti sappiamo cosa sia significhi avere la fortuna di conoscerla, abbracciarla, farla ridere e averla come amica. Poi fu il turno del papà, un compagno di avventure, a volte duro per riportarci sulla retta via, a volte accondiscendente alle cazzate che facciamo crescendo.
Come se non bastasse, a questi due lutti seguirono quelli dei due migliori amici. Questi ultimi sono la spalla su cui ci poggiamo quando crediamo di aver perso tutto, quelli che ti danno una pacca sulla spalla per congratularsi quando raggiungi un traguardo. Sono fratelli senza il nostro stesso sangue ma che condividono il nostro stesso cuore. Rispondono al telefono a notte fonda quando sei rimasto in panne con l’auto e ti aprono la loro porta mentre tu hai lasciato le chiavi di casa dentro e non hai dove dormire.
Lui provava a reagire, si rialzava ma un altro scossone lo faceva scivolare sul fondo. Abituarsi ad un dolore è traumatico, sommarne quattro è straziante. Non so chi avrebbe la capacità di far finta di niente continuando a condurre una normale esistenza. Ogni giorno era appassire sempre di più, perdendo voglia, stimoli e forza. Lo vedevi sfiorire piano piano, lo sguardo corrucciato col fato, con un Dio che senza pietà gli aveva strappato tutto. Chiuso in se stesso andava avanti per forza d’inerzia, fumava e beveva solamente per farsi del male. Aveva deciso di chiudere con tutto, di violentarsi dentro e di cancellare il suo corpo.
Nelle notti qualcuno l’ha anche sentito piangere mentre scagliava pugni contro il muro e digrignava i denti per la rabbia. Non so cosa provasse, non vorrei avere nemmeno modo di capirlo. Certi brutti drammi ti segnano per sempre e lui era sfigurato dai dispiaceri. Perché alcuni siano scelti per soffrire io non lo so, se siano scelti a caso o con cognizione di causa, quale perverso sadismo si provi nel farlo, è impossibile da comprendere.
Diciamo di avere un Dio che per noi prova amore, ma se poi ti guardi un po’ intorno ti accorgi che viviamo in un mondo di sofferenza, dove vanno via sempre i migliori. Si dice sempre così no?
Ed i peggiori? Quelli rimangono a finire di estinguere la razza umana.
Ci chiediamo “perché proprio a me?” Non saprei dirlo, gliel’ho sentita fare a tanti questa domanda, e nessuno però ha mai dato una risposta. Aspettiamo, chi aspettiamo? Il buon Dio si è dimenticato di noi.
Tu queste risposte nemmeno le hai cercate, non le hai volute, forse non ti sarebbero bastate. Hai tagliato corto con le spiegazioni scontate.
Dicono di averti visto rimettere la chitarra nella custodia dopo quasi 50 anni. L’hai posata nell’armadio, hai chiuso il portone di casa e sei andato alla stazione. Ti hanno sentito chiedere un biglietto di sola andata per un posto lontano. Hai pagato e ti sei seduto ad aspettare sulla panchina, poi sei salito sul treno e sei scomparso per sempre. Nessuno ha più tue notizie ma spero solo che ogni tanto ricordi delle canzoni che hai scritto, tu chitarrista della notte avrai lenito quel tuo dolore?
Spero che in parte ci sarai riuscito. No, completamente non credo, lo so che è impossibile. Alle anime profonde le cicatrici non passano, basta poco per riaprirle e farle sanguinare …