Acqua, morte e vita
A Vincenzo piaceva guardare la pioggia. Quella che aveva le goccioline che si frantumavano sulle finestre. Che ci si incollavano, sul vetro, e poi via così, la più coraggiosa scende e diventa grossa grossa perché si mangia le altre e va sempre più giù. Fino a scomparire sotto.
Dove, non si sa. Ma che importa? Se alzi lo sguardo fino alla parte superiore del vetro ce ne sono altre, di goccioline. Che diventano grosse grosse perché si mangiano le altre più piccole e vanno sempre più giù. Fino a scomparire sotto. A Vincenzo piaceva guardare questo spettacolo. Per questo amava girare in macchina quando pioveva. Sua mamma lo sistemava nel sedile davanti e lui stava a guardare dal finestrino le goccioline che lì si muovevano danzando al ritmo imposto dall’auto.
Ma ci sono cose che sono così naturali come le gocce che non serve spiegarle
Ma ci sono cose che sono così naturali come le gocce che non serve spiegarle.
Poi ci furono dei giorni che la sedia di Vincenzo rimase vuota. Succedeva, ogni tanto. Però questa volta era molto tempo che quella sedia rimaneva vuota. Filippo saltellava e ronzava e ascoltava la musica con l’iPod. E continuava a sfogliare i libri, fino a consumarli. Gli piaceva sfregarli con le mani e con le dita fino a togliere dalle pagine l’inchiostro, cosicché tutte le pagine tornavano bianche e tutti i libri diventavano uguali. Però quella volta un operatore si avvicinò al libro che Filippo stava sfregando e una goccia gli cadde dall’occhio e si andò ad inchiodare sulla pagina del libro. Filippo fece finta di niente e continuò il suo lavoro.
Poi ne cadde un’altra. Un’altra ancora.
Allora Filippo si irritò e si spostò di posto, ma le goccioline continuavano a cadere dagli occhi dell’operatore, sul tavolo. E poi anche un altro operatore iniziò a far cadere goccioline, ed un altro ancora.
A Filippo non piacquero più i libri.
Per un bel pezzo non poteva tollerarne uno se lo vedeva nella stessa stanza dove entrava lui. Aspettava tutti i giorni, vicino alla sedia vuota, la pioggia. Quella che aveva le goccioline che si frantumavano sulle finestre. Che ci si incollavano, sul vetro, e poi via così, la più coraggiosa scende e diventa grossa grossa perché si mangia le altre e va sempre più giù. Fino a scomparire sotto.
Dove, non si sa. Ma che importa?
Quel giorno Rosa si era svegliata con tutte le nuvole grigie del cielo sopra di lei. Se le sentiva addosso come una coperta troppo pesante, secca ma piena d’acqua; pericolosa e pronta a scoppiare. Grigia di cenere e amaranto di brace. Nel treno freddo della metropolitana due bambine dormivano abbracciate ai loro zainetti; seduta fra le due la madre le osservava con stretto sguardo mattutino. Avevano chiuso gli occhi al silenzio innaturale della scatoletta stipata di gente che fendeva il buio stomaco della città e le teste ciondolavano ad ogni fermata e partenza brusca. Anche la voce di donna aliena che annunciava le stazioni stava zitta quella mattina; forse gli altoparlanti erano guasti. Rosa trovava incredibile quanto quelle voci sconosciute di bocche senza volto paressero venire da tanto lontano. Una dizione perfetta che prende le distanze dalle orecchie alle quali parla, una voce che è lì, ma non è presente, che se ne frega se in quel treno manca qualcuno. E se ne frega di sapere se ha fatto ritardo, ha cambiato città, o se è morto.
(…) l’orologio in camera di Stefania avrebbe continuato a ticchettare fastidiosamente (…)
E il sole avrebbe continuato a sorgere senza dire nulla, così come il giornalaio avrebbe continuato ad avere il suo tic di strizzare l’occhio ogni volta che deve contare i centesimi. E le foglie del giardino della nonna sarebbero continuate a cadere, i cornetti caldi sarebbero stati sfornati con lo stesso profumo, i bambini avrebbero continuato a colorare fogli uscendo fuori dai bordi, l’orologio in camera di Stefania avrebbe continuato a ticchettare fastidiosamente, la sigla del TG pomeridiano sarebbe rimasta la stessa e tante, troppe risate avrebbero riecheggiato fra troppe pareti in troppi posti del mondo.
A Rosa non piaceva questa indifferenza mondiale, la trovava quanto di più disumano possa essere pensato.
Quella notte la coltre di nuvole scoppiò, sorprendendola da sola in strada ad inzupparsi di pioggia pesante. E allora pensò che anche la pioggia avrebbe continuato a scorrere senza la consapevolezza dei suoi sentimenti, allo stesso modo delle più sentite lacrime al mondo.
E tutta quell’acqua sarebbe servita a qualcosa, avrebbe dato vita ad altre vite, sarebbe finita in qualche posto ed avrebbe trovato il suo senso nel fatto stesso di essere acqua ed avere un viaggio da compiere. Da quel giorno Rosa amò ancor di più la pioggia, bagnandosi e sentendosi acqua lei stessa. In certe gocce riconobbe lacrime di sconosciuti, in altre trovò dei passi pieni di polvere, in quelle che avevano trafitto cieli lontani scoprì colori mai visti prima.
In tutte ci scovò la vita.