Silenzio, favella il doge
Quando Giuseppe Verdi incontra Lord George Byron, incontra il respiro romantico mitteleuropeo e da questo connubio nasce l’opera I Due Foscari.
Il compositore è fortemente affascinato dal dramma in versi del poeta inglese – lo trova “pieno di passione e musicabilissimo” – e crede che la storia ambientata nella città lagunare possa piacere ai veneziani. Al contrario, la direzione del teatro La Fenice lo invita a ripensarci per non turbare i discendenti dei Foscari.
Il nostro invece, caparbiamente, continua la collaborazione con il suo librettista Piave e nell’estate del 1844 l’opera è completata. Il successo è modesto e il giorno dopo Verdi scrive: “Se I due Foscari non sono del tutto caduti poco è mancato. Sia poi perché i cantanti hanno stonato assai… il fatto si è che l’opera ha fatto mezzo fiasco…”, continuando poi: “Io avevo molta predilezione per quest’opera: forse mi sono ingannato, ma prima di ricredermi voglio un altro giudizio”.
Il musicista cerca allora altre soluzioni musicali per caratterizzare i tre principali personaggi e il Consiglio dei Dieci.
I due Foscari contengono una tematica cara a Verdi: il conflitto tra le regole e la ragione del cuore e dei sentimenti. Il doge Francesco è prigioniero del sistema politico, rappresentato dal Consiglio dei Dieci, che è più forte di lui. Rigido nell’obbedire alla ragion di Stato, Francesco Foscari sacrifica il proprio figlio, sordo ai lamenti di dolore della nuora Lucrezia e dei suoi bambini. Soltanto il suono della campana che inneggia alla nomina del nuovo doge “Oh ciel! Salutano me vivo un successor” gli svela l’intrigo di corte per sostituire i Foscari al Consiglio dei Dieci. È sopravvissuto alla morte del figlio ma il vecchio cuore che batte non può superare l’inganno: “di un odio infernale la vittima sono… più figli, più trono, più vita non ho”.
Intrighi di corte e il dovere di un ruolo che ha il sopravvento sull’amore paterno sono i nuclei fondanti dell’opera. Servitore della polis fino alla morte e contro gli intrighi. Antico paladino di una giustizia che sacrifica i figli per portare avanti gli ideali. Ma soprattutto grande ruolo per i baritoni.
I grandi cantanti della storia del melodramma si sono misurati con questo ruolo sia vocalmente che scenicamente. Giangiacomo Guelfi ci consegna nella grande scena finale un’interpretazione violenta e sommessa. Soltanto Renato Bruson riesce a dare al personaggio un lirismo vibrante. Ero a Roma quando il baritono rivestiva i panni del doge. Splendido l’abito della scena del Consiglio, giallo oro damascato con in testa il corno ducale tempestato di gemme. Ho assistito alla recita da un palco di proscenio: da quella posizione ho potuto gustare non solo le arie ma l’intensità del volto dell’interprete. Il lirismo e il fraseggio erano arricchiti dal suo timbro caldo e vellutato e, con un’eleganza che non ha confronti nella storia interpretativa del baritono verdiano, riempiva la scena.
Il celeberrimo artista veneto ERA il doge: rigido e austero nei primi due atti, commosso e disperato nella scena finale e nell’estremo ruggito del leone ferito si è racchiusa tutta la sua immensa arte. Spogliato dalle vesti ducali è solo un uomo che si guarda intorno smarrito, barcolla e poi, morente, precipita dalla scalinata. Il coro canta le ultime battute ”D’angoscia spirò” e il sipario si chiude. Un religioso silenzio ha avvolto la platea fino a quando i cantanti sul proscenio sono usciti per i saluti. Un tripudio di applausi ha accompagnato Renato Bruson. Siamo andati nei camerini, lo abbiamo trovato seduto ancora truccato; ci ha sorriso ma con tutta evidenza le forti emozioni che aveva provato ed aveva trasmesso erano ancora dentro di lui.
Giuseppe Verdi nell’aprile 1845, a proposito de I Due Foscari, scrisse: “Sono felice, non importa che riscontro arriverà, io sono completamente indifferente a tutto ciò…”. Quella sera a Roma, nel novembre del 2001, il compositore ha avuto ragione della sua caparbietà nell’eseguire quest’opera, perché noi presenti abbiamo assistito ad uno spettacolo splendido reso ancor più affascinante dalla splendida interpretazione del protagonista e dall’attualità dei temi: una moltitudine volutamente cieca della gestione politica, soffocata dalla vendetta e dall’odio, dove potere e affetti si intersecano in un groviglio di sentimenti dalle tinte fosche che ci rimandano ad una chiave di lettura del presente.