Emma togli quel cappello
La scuola per Emma era finita prima del previsto.
Quella telefonata, tanto attesa e maledetta allo stesso tempo, era arrivata qualche giorno prima, mentre con i suoi compagni stava organizzando una giornata da trascorrere sulla spiaggia di Mondello.
“Tu porta le casse bluetooth, tu il pallone, e non dimenticate i soldi per comprare la rosticceria, vi raccomando!”
Ad Emma sarebbe piaciuto pensare a niente in quei giorni, mentre il caldo iniziava a diventare insopportabile e afoso.
Alla fine aveva deciso di mandare un messaggio nella chat di gruppo con scritto “Niente piccio’, andate voi, poi ci aggiorniamo”, seguito da innumerevoli punti interrogativi curiosi di conoscere il perché di quella decisione improvvisa ed esclamazioni che la invitavano a non fare la guastafeste, di non fare la fanga.
Quella mattina, mentre si guardava riflessa nello specchio del suo armadio, giurò a se stessa che non avrebbe più fatto la tinta ai capelli senza l’aiuto di qualcuno.
mentre si guardava riflessa nello specchio del suo armadio, giurò a se stessa che non avrebbe più fatto la tinta ai capelli senza l’aiuto di qualcuno.
Aveva paura di averli rovinati, ma ormai li aveva resi di un rosso così acceso da sembrare la luce dello stop di un camion.
Era tempo di iniziare a pensare cosa avrebbe detto a sua madre, una volta scesa giù per la colazione. Ma forse in realtà non le importava più di tanto.
I capelli erano suoi.
Non faceva altro che ripeterlo tra sé e sé, da quando quel cavolo di medico con la faccia da balata le aveva dato quella stupida sentenza che le avrebbe praticamente proibito di andare in campagna con i nonni o a mare con i suoi amici, tutti insieme, accalcati sulla 806.
I capelli erano suoi.
Le dava troppo fastidio prendere l’autobus, ma vuoi mettere camminare per le strade deserte, quando in agosto non c’è anima viva?
«Vuoi sbrigarti che è tardi?» la madre continuava a chiamarla dal piano terra con voce abbastanza nervosa.
«Sì, arrivo, e che cavolo!»
Indossato il primo berretto trovato dentro l’anta dell’armadio e via, giù per le scale.
Per poco non inciampava sul cane che, proprio in quel momento, aveva deciso che il tappeto alla fine della rampa fosse un ottimo posto per un sonnellino ristoratore.
Balzo miracoloso dal penultimo gradino, con tanto di imprecazione verso quella montagna di peli assonnata, per ritrovarsi direttamente in cucina.
«Il cappello con questo caldo? Aspetta un momento… Ma cosa hai fatto ai capelli?» la madre però non le diede nemmeno il tempo di aprire la bocca per farfugliare qualche scusa che continuò con voce nostalgica. «In effetti anche a me piacerebbe portare i capelli colorati, sin da quando avevo la tua età, e poi erano di moda soprattutto tra noi del liceo artistico. Che bel periodo!»
«Ma’ amunì, non di prima mattina, per cortesia…» Emma interruppe bruscamente la madre.
«Camurria che sei! Comunque, alla fin fine fai come ti pare, tanto i capelli sono tuoi.»
Ancora quella frase! Anche sua madre la pensava come lei.
Verissimo, i capelli erano ancora lì, attaccati alla testa, erano i suoi e lei poteva ancora farne quello che voleva.
A quel punto Emma tolse il berretto da sopra quella testa di un rosso abbagliante, lo fece con un lento gesto del braccio mentre diceva quasi a bassa voce, vergognandosi «Ma’…»
«Dimmi…» rispose la madre sospirando. Aveva già compreso quale domanda stava per piombarle addosso.
«Fa male la chemio?»