Un senso
La pioggia infuria. L’acqua sbatte sull’asfalto e nel silenzio della notte produce un suono che sembra ora dolce, ora sinistro. Il cuscino è comodo, la testa da un lato, poi dall’altro. Ma Morfeo non arriva. In lontananza una sirena, poi un’altra. Nemmeno sotto l’uragano si ferma la processione triste di ambulanze in questo tempo strano, in quest’anno funestato da un nemico invisibile eppure tremendo. Qualcuno lì dentro, anche adesso, combatte per respirare. Qualcuno da qualche altra parte, anche adesso, starà morendo, da solo. Ci sarà un senso in tutto questo? C’è un senso, anche qui anche adesso, per cui non dormo?
No, non è la pioggia. Non è nemmeno il Covid, anche se fa paura.
Di giorno non sembra così. Ma la notte, si sa, tutto è più rarefatto, i pensieri scorrono lenti, formano parole senza coniugazioni. Verbi all’infinito. Sbattersi. Faticare. Prendere. Rinunciare. Inseguire mille cose, più spesso esserne inseguiti. Cercare di farcela, che già sopravvivere, malgrado tutto, è un successo mica da poco.
Cercare un senso autentico, alla base o alla fine di tutto.
Conoscere bene, essere proprio intimi, con quella irrequietezza che detesti e che pure è così profondamente tua.
Tormentarsi, l’assillo di cogliere il fatidico attimo che tanto comunque… se è proprio un attimo, varrà la pena davvero di affannarsi tanto ad inseguirlo?
Cercare un senso che dia pace, finalmente, pensare a lungo che in fondo forse un senso vero, uno solo, non c’è. E scomodare poeti, filosofi, intellettuali, cercare la propria nicchia di pensieri, la metafisica, la scienza, la formula magica che ti cada bene addosso.
Tanto quello che so è che non so.
Sentirsi soli, piccoli, infimi, inadeguati. E poi a volte invece ritrovarsi fin troppe spanne sopra, ma sempre con quel senso profondo che manca, irrisolto. Irrisolti.
E poi, come illuminazioni repentine, dare un bacio a una bambina, accarezzarle i capelli mentre dorme, facendo in modo che non si svegli, ma che in qualche modo avverta la sensazione di quelle carezze, come in sogno. Scambiare parole semplici prima di dormire con chi ami, un abbraccio, alcune cose dette, altre non dette ma piantate lì, sottopelle. Oltre la superficie, sotto i rumori inutili, nella parte di te che sta esattamente tra il dentro e il fuori. Forse è un rifugio, una fuga, o forse è l’unico posto autentico, l’unico che fuga non è.
Un altro giorno che finisce, un letto, molta stanchezza, ma cogliere almeno lampi, almeno barlumi di un senso, che non sarà tutto, ma di certo è molto: volersi bene. Voler bene. Aver cura, in modo naturale. Di chi ami, di chi ha bisogno di te, di vite che ti scorrono accanto sulle quali puoi incidere e forse non lo avevi capito, o non avevi capito fino a che punto, vite di cui ti accorgevi appena, o che consideravi scontate. Aver cura di se stessi, come se cogliessi improvvisamente che quel te stesso che tante volte non sopporti, quel te di cui ti sei venuto a noia da solo, può essere una (ri)scoperta che cambia totalmente le prospettive. Semplicità di piccoli gesti, di piccole cose.
No, non è tutto lì, c’è molto altro ed è molto meno semplice di così. La pioggia continua a cadere furiosa e altre sirene sfrecciano verso dolori più difficili, dolori che non hanno un senso. Ma nella complessità, c’è anche questa semplicità ed è un dono prezioso, che tutto conferma e da cui tutto ogni volta ricomincia. E questa notte mi voglio addormentare così.