Le mani di Caterina
Ho una mano piccola non particolarmente affusolata, con le dita appena un po’ piene nella parte superiore. La pelle sottile, durante la stagione più fredda si arrossa e a me sembrano le mani di una vecchia, no non direi di avere belle mani.
Le sorelle di mio nonno nate nei primi del novecento non ebbero una vita facile. Il padre decise di tentare, come tanti altri, la fortuna in America lasciando qui moglie e tre figli. Non tornò più, rimase con la sua nuova famiglia, oltreoceano. Così la moglie e i figli patirono la fame nel vero senso della parola. Lo testimoniano poche foto in cui mio nonno, che era molto alto, sembra uno spaventapasseri per l’eccessiva magrezza. Il volto serissimo, mai l’accenno di un sorriso quasi a voler testimoniare uno stato perenne di non manifesta felicità. Una delle sue sorelle ebbe dipinta sul viso, finché visse, un’espressione di cattiveria che in realtà era la perenne smorfia che le aveva impresso quel tradimento, quel viso del quale io bambina non riuscivo a reggere la vista e scoppiavo in lacrime quando mi protendeva le braccia speranzosa. Mi nascondevo dietro le gonne di mia madre, avvertivo forse il suo dolore, la delusione senza comprendere sul serio. La mia bisnonna dovette lavorare duramente, talmente sodo che si è cancellata anche la memoria del suo nome assieme ai suoi polsi e alle sue mani. Pare lavorasse in una scuola, ma non era di certo una insegnante.
Hai la mano di Caterina, mi diceva sempre, Caterina aveva una mano bellissima.
E poi c’era Caterina. Non ci sono foto di lei, forse una soltanto, frammenti di memoria raccontati da mia nonna, l’unica che poteva parlarne senza soffrire e lo faceva quando nessuno, eccetto noi nipoti, poteva ascoltare. Nella voce poca emozione come se stesse per dirci cosa avrebbe preparato per cena.
Hai la mano di Caterina, mi diceva sempre, Caterina aveva una mano bellissima. Non si parlava dei suoi occhi, del suo viso o del portamento, la bellezza di questa donna era racchiusa tutta nelle mani attraverso le quali si narrava di una giovane che in pochi avevano conosciuto. Una mano piccola nobile, affamata. Una mano che aveva vissuto brevemente. Che aveva stretto poco o nulla tra le dita.
Davvero? le dicevo, e mi sembrava il complimento più bello che potessi ricevere. Somigliare a qualcuno di cui non conoscevo il volto ma le cui mani erano divenute una leggenda di famiglia.
Attraverso quella mano si esprimeva la nobiltà di una donna che si era persa in un cassetto, in una foto color seppia, una donna che non aveva avuto una storia, un amore, un futuro. Qualcuno aveva mai tenuto quelle mani tra le sue? Avevano carezzato un uomo?
Non lo sapevamo.
O chi lo sapeva taceva, oppure non era più tra i vivi.
E poi ogni volta alla fine del racconto, mia nonna godeva delle espressioni dei nostri volti che si caricavano pian piano di stupore perché mia nonna era una grande attrice, l’enfasi si gonfiava come un piccolo dirigibile. E la storia finiva sempre con questa affermazione: era bellissima ma siccome erano poverissimi non la volle sposare nessuno.
Mi guardo le mani e mi chiedo se somiglino davvero alle sue.