Scampoli di Pensieri

Via i rivestimenti. Via gli strati. Via i blocchi di cemento, duro, o di gomma, impenetrabile.
Via le maschere per quello che gli altri non devono vedere. E che noi stessi abbiamo paura di vedere..

Anni, lustri, decenni, di presunta crescita, di presunta maturazione, di esperienze reali filtrate attraverso gli occhi di presunti codici interpretativi, che altro non sono che i nostri filtri protettivi sul mondo.

Via tutto. Torniamo bambini. Alla dimensione del puer, alla purezza assoluta dell’essere, senza sovrastrutture. Così necessarie, così inutili.

La fine di una giornata, il cielo pieno di stelle, fermarsi un attimo a respirare l’universo. Immobili, nel silenzio, quasi fosse un non luogo. Tutto una corsa continua, logorante, incessante. Per cosa poi. Tutto una fuga. Da cosa poi. Dal tempo, dalla morte, dalla vita, da se stessi. Dalla propria incapacità di mantenersi stabili sulla corda sottile, senza oscillare. Di vivere. Tutto un vuoto da riempire. Di cosa poi. Solo per esorcizzare la paura del vuoto, dell’abisso, l’ubriacatura per non sentire… cosa poi. Dolore? La fuga dal dolore e dal vuoto, la meta però… quale sarà

A che serve scrivere a che serve leggere imparare, conoscere. C’è un orologio su quel tavolo. Fa un ticchettio che mi obbliga al contatto col tempo, a capire. Prima che sia troppo tardi e io muoia nell’ignoranza. Sto urlando in mezzo al mare, lo facciamo tutti siamo ognuno su una barchetta alla deriva, il vento gioca a confonderci le parole, le aggroviglia tornano a noi echi di altri monologhi. Non ascoltiamo. Alla fine conta poco perchè siamo disperati. E paurosi e codardi. Fin quando non arriva qualcuno che se ne sta fiero deciso a non affogare e ci salva. La sua sacralità sta nell’indicarci che a ignoranza rispondiamo con conoscenza. Al rumore col silenzio. A bestialità, con ciò che di più umano abbiamo. La paura è positiva, se nel nostro navigare ci sono onestà e ragione. E se è tutta una questione di tempo, ci salva la memoria.

Il malessere più profondo non è dato tanto o soltanto dalla mancanza di qualcuno, quanto dalla mancanza di noi stessi nel modo in cui eravamo al cospetto di quel qualcuno. È la perdita di noi stessi nella versione che ci piaceva di più a disorientarci, a farci sentire naufraghi in un mare dalla rotta incerta. A volte, siamo salvi da un pezzo eppure continuiamo a lanciare bengala nel cielo come se fossimo smarriti…

Imparare a disinnescare le micce senza necessariamente accenderle per il desiderio irreprimibile di giochi d’artificio.

Questo dovrebbe essere uno dei segni distintivi sulla strada della saggezza.

La capacità di spegnere un focolaio quando ancora cova sotto la cenere, prima che divampi l’incendio, evitando di procurarsi e procurare ustioni di vario tipo. Trovare una formula diversa da quella secondo cui l’unica possibilità di superare una tentazione è cedervi. Realistica saggezza o utopia?

Pensaci. L’acqua che scorre, rigenera e lava è donna. Anche l’acqua che scioglie le macchie, così come quella che congela e diventa duro ghiaccio che fa male, è donna. La roccia che non si sgretola, quella che ti offre un posto all’ombra è femmina. Eppure anche la sabbia che perde forma sotto il peso della prima onda è donna. La guerra, piena di vizi, di boati e di vittime, è sfacciatamente donna. Ma potrei dire lo stesso della pace, della bellezza, della calma.

Quante cose è questa Donna, che tutto crea e tutto disfa? La Risposta non arriva, si compiace dell’Attesa. Tutte donne che ci lasciano in sospeso.

-Non mi siete mancati per niente

-Certo che no: non ti abbiamo mai lasciato! Eravamo sempre con te, solo che tu, illuso, avevi deciso di far finta che non ci fossimo

-Appunto. Sono io che vi faccio esistere, se vi ignoro voi non esistete

-Non puoi fare a meno di noi. Non resisti senza i tuoi cari detestati demoni

-Fottetevi. Se sarà necessario strappare via una parte di me per cacciare voi lo farò

-Non lo farai. Perché hai bisogno degli angeli che sono in te, ma se cacci noi non ti avrai più neanche quelli…

Parlami. Come se io non fossi io. Un vento improvviso tra i capelli che come per magia cessa all’improvviso e lascia uno specchio. In cui tu possa vederti, guardarti, cercarti, sentirti. Parlami, oppure taci: io sono io, ricordi? Sempre quello lì che ti prese per mano, un giorno, e chissà dove ti portò, se da qualche parte ti portò. Sono quello lì, ingombrante e invadente oppure quasi invisibile e impercettibile. Tu non ti perdi mai nelle vie indeterminate dell’infinito; ma se per caso ti perdessi un solo attimo, io sarei lì, a cercare con te, te, o quel che sia, che desideri, un quadrifoglio, una stella, un divano su cui sprofondare, un atollo sperduto, la fuga, il ritrovamento. Tu parlami. Io capirò

Non c’è frustrazione peggiore per un uomo che illudersi di combattere per inseguire l’eterno fuori e dentro di sé; e accorgersi poi di non essere capace di reggere oltre un attimo, più che un brandello di eterno fugace… Anche per questo, forse, meglio inseguire che afferrare… nell’inseguimento ci crediamo tutti all’altezza della meta, più alti, potenzialmente molto più alti di quel che in realtà siamo…

Mammina mi hai chiamato, non mi spiegai quel suono. Mammina mi ha chiamato, e gli passavo accanto come a quattr’anni, quando cadendo mi implorò la mano. Lo colsi piccolo e impaurito e lo scaldai al cuore. Mammina ora rispondo – vezzo antico – porti la mia mano al viso e ti accarezzo, dopo questo gelido anno che ha bruciato il cuore. Non riuscivo a credere – mammina – eppure lo racconto ai miei compagni ché quel momento non rimanga unico e ritorni ancora insieme a te: bambino, uomo, figlio mio.

“Se riesci a sopportare di udire la verità che hai detto distorta da furfanti per ingannare gli sciocchi…”
Non so se posso, se possiamo, se dobbiamo, ché ognuno ha le sue parole e la bocca altre non ne può contenere. Se qualcuno ha fatto o farà questo alle mie parole, io punirò gli sciocchi che avranno creduto, giammai i furfanti, ché questi sono già puniti dall’amara delusione di non essere me.