La miseria degli adulti
Dopo aver parlato il mese scorso della grandezza estrema di cuore e di mente dei bambini, tocca alla controparte adulta, di cui, ahimè da tempo, faccio parte anch’io.
Ma, come diceva Hemingway, conservo con orgoglio un cuore bambino, che mi ha causato non pochi scontri coi miei presunti “coetanei”, ormai marci senza speranza.
Come sempre, o quasi, parlo di fatti piccolini realmente vissuti, e a guardare bene piuttosto indicativi. Immagino il mio viaggio nella miseria del mondo adulto, come un’unica giornata divisa tra tragitto a piedi verso il lavoro, e il lavoro stesso, la scuola; sono una “maestra dei libri”, ovvero una maestra bibliotecaria, specie protetta dal wwf. Siamo peggio del panda rosso.
Passo di fronte all’agenzia immobiliare vicino casa mia. Trendyssima e tecnologica. Col suo occupante, appoggiato alla vetrina in all’erta. Ci salutiamo e ci sorridiamo. Come in molte mattine. In realtà sono solo io, a sorridere; non gli ispiro troppa fiducia, mi sa. Siamo il giorno e la notte, noi due. Io, zingaresca e colorata, gli immancabili libri sotto il braccio, musica in cuffia o motivetto cantato sottovoce. Lui, “man in black” con occhiali d’ordinanza, perfetto e composto in ogni particolare, muto, cuffie collegate a telefono di ultima generazione. Immagino il suo sguardo valutarmi dietro le lenti scure, squadrarmi dalla punta dei mollettoni per la chioma a quella degli stivaletti da guerriglia urbana. Con malcelato disgusto. La sua girl sicuramente vive in tacco 12 ed è sempre fresca di parrucchiere. Stamani il nostro saluto è accompagnato dall’incedere rumoroso e nauseabondo del camion dei rifiuti poco distante, che ha scelto un orario davvero felice per deliziare il quartiere. Mi viene in mente un’istantanea del Paese attuale, a giudicare da noi protagonisti. Misfits (spostati) artistoidi versus carrieristi senza scrupoli. Sullo sfondo, monnezza.
Arrivo davanti all’oreficeria, ne incrocio l’attempato proprietario appoggiato anche lui alla vetrina, in cerca del primo sole come un gattone annoiato, che mi vede in negozio solo quando cambio le pile all’orologio, quindi ogni due anni circa. Ma in strada invece mi incontra spesso, lanciandomi sguardi languidi e battutine del tipo:
“Buongiorno, bella signora canterina!”.
I miei fan questi sono, under 12 e over 60, devo rassegnarmi. Oggi, che strano, appoggiato languidamente alla vetrina mi nota ma non risponde al mio saluto. Che gli avrò fatto mai per avercela con me? 30 secondi dopo il cielo mi fornisce la risposta. Una voce stridula, dall’interno, lo richiama all’ordine; in negozio c’è bisogno di lui. La moglie. Sbircio incuriosita, facendo finta di osservare la vetrina. È pure molto più giovane e attraente. Una bella signora incazzatina. E proprio non riesco a darle torto.
Mi sto avvicinando a scuola, vado incontro al supermercato. Nel parcheggio di macchine e carrelli, un uomo grassoccio, di statura media. Ha molti capelli ricci che spuntano sotto un panama bianco. Apparentemente sulla quarantina, faccia paonazza da bevitore. Sta cercando insistentemente qualcosa nella tasca dei pantaloni. La trova, è la chiave dell’auto. Sospira sollevato e si dirige verso una coupè bianca. Parte a razzo, lasciando dietro di sé una scia di fumo maleodorante. Sfreccia veloce e pericolosamente tra le macchine in sosta e la fila di carrelli pronti all’uso. Verso una di queste macchine in sosta, un’utilitaria blu notte, si sta avviando una donna alta, snella, di mezza età anche lei, capelli raccolti in una coda grigio topo, occhialuta. “Intrombabile”, direbbe un noto politico. La seguono a ruota due gemelli maschi sugli otto anni, identici e identicamente lamentosi. Uno di loro inizia a piagnucolare per la stanchezza e l’altro lo imita. Lei sembra impassibile; raggiunta l’auto butta dentro prima i sacchetti della spesa, poi i due bambini, e dice loro, in tono monocorde:
“Forza, rompiscatole, stiamo andando a casa”.
L’uomo grasso in coupè bianca le sfreccia accanto, quasi sfiorandola con l’auto e urla:
“E togliti dai coglioni, cretina!”
Sono arrivata al lavoro, saluto frettolosamente, firmo il registro presenze e corro a rintanarmi nella mia stanza-laboratorio piena di libri e di colori rassicuranti. La pace mi dura ben poco.
“Che per caso ti ritrovi un phon?!?”
Dal teatro in cui stanno provando lo spettacolo di fine anno, collega simil giovane irrompe nella stanza in cui mi sto massacrando le dita con la colla a caldo dei lavori.
“Eh?!? Un phon, dici, e a che ti serve, un phon?”
Ha la voce rotta da pianto imminente…
“Ero al bagno, il cellulare nella tasca dei jeans… mi è caduto nel wc… la batteria, andata… Claudio (il maestro di musica ossia di piffero, dei piccolini), mi ha detto che posso provare ad asciugarlo col phon, pensavo che forse tu ce lo potevi avere!”
‘Ce ne ha sempre una, piuttosto, Claudio… che genio!’ penso. Mi rivolgo alla sventurata:
“E secondo te io mi porto il phon a scuola?”
“Ma tu hai sempre tutto, l’altro giorno dipingevi con il caffé, sei fantasiosa, tu…”
“Ho capito, ma mica mi porto dietro la casa come le tartarughe!”
E avrei voluto aggiungere: ‘Se poi evitavi di mettere i jeans a vita bassa che strizzano il culo per fare cosa gradita al maestro Claudio e pretendere di infilarci anche il telefono, ‘ste cose non succederebbero!’. Poi guardo la faccia avvilita della collega, mi fa tenerezza, magari è innamorata. Le consiglio:
“Prova dalle maestre dell’asilo, coi bimbi piccoli che se la fanno ancora sotto magari il phon loro ce l’hanno!”
“Hai ragionee, grazieee! Vado, allora!”
Una scintilla di speranza le brilla nell’occhio dal bistro di Cleopatra. Si gira sul tacco 10 e mi lascia ai miei giocattoli. “Che la forza sia con te”, penso.
“Martina mi ha detto che ora ti fai chiamare principessa!”
Stavolta è il turno di un’altra collega di ritorno da un prestito di classe. La guardo, sbiondata, lampadata e gnappa (bassa) da vera fan della Versace; mi parla:
“Ti sei sposata con Harry d’Inghilterra e non ce lo hai detto’?”
“Wow, battutona dell’ocona!”
Le rispondo a tono:
“E certo, le hai proibito, a lei e alla classe, di chiamarmi ‘maestra’!”
“Devi capire, se chiamano maestri tutti quelli che entrano a fare laboratori gli si genera confusione sui loro punti di riferimento! Le maestre siamo noi del quotidiano, anche per una questione di autorità, sennò non ci rispettano. E tu, che sei la solita, ci hai aggiunto il carico!”
Insomma è sempre colpa mia. Ride, perchè alla cazzata che ha detto non crede neanche lei. Io sono serissima, invece.
“Mi voleva chiamare ‘signora’, magari collegando nella giovane mente che se si è maestre non si può essere signore, e viceversa … allora ho fatto un gioco di parole, sono la più alta, recito le fiabe… quindi ‘sua altezza’ per me è perfetto. Si scherza, si sa”
Ora sorrido anch’io. Sembra convinta. Potevo mai dirle che, rimanendo in tema fiabe, le parti dei nani, dei folletti e delle streghe erano già state assegnate e mi rimaneva solo quella dell’altezza reale?
Pausa merenda per cuccioli e cuccioloni. Signore della mensa distribuiscono banane con grazia di gorilla.
“Maestra, mi hanno dato una banana sfigata, è tutta nera!”
Piagnucola un bimbo. Collega titolare e broccoletta di sostegno, in coro:
“Ma no, mangiala, è solo matura!”
Collega titolare, dall’alto del suo pulpito, aggiunge preziose informazioni scientifiche:
“Così matura ti fa bene alla pancia!”
Io assisto alla scena, faccio cenno di aspettare al piccolo ormai in lacrime. Torno con una banana del regolamentare giallo da consegnargli in cambio di quella fradicia.
“Questa la usiamo per Halloween!”
Sorrido, per allontanare il sentimento di desolazione. Sento un po’ di occhi addosso… sguardo trionfante del piccolo già innamorato, che per ricambiare mi mostra la foto del suo nuovo micetto, sguardo livido delle grandi ormai spodestate. Faccio i complimenti al bimbo per il suo gattino e ricambio le miserabili con uno sguardo di regal sdegno.