“Silenzio”
Silenzio.
“Madonna che silenzio, c’è…”
Cecco se ne è andato. Francesco Nuti da Narnali, Prato, è andato via così come ha attraversato la vita; senza fare rumore, come un gatto, come diceva Hemingway. Io lo amavo, da tutta la vita; sarà che lo sentivo affine. Tanti punti in comune, io e lui. Lo sguardo dolce, i silenzi carichi, la mamma calabrese, i riccioli dorati, la malinconica ironia. Un fratello, un amico, un complice. Anche se una star. Era un artista puro, completo, non soltanto un performer. Precursore di tutta la comicità surreale che va tanto di moda ora. Un artista puro crea, spontaneamente. Non per i soldi, la fama, il successo, gli amori facili. O almeno, non solo. Crea perché non sa fare altro. La sua arte lo possiede e lo rappresenta, in ogni ambito della vita, oltre il set.
E infatti lui creava anche in altri ambiti. Pochi lo sanno, ma era un pittore e uno sceneggiatore… i più attenti invece, hanno apprezzato in tutti i suoi film le canzoni scritte in collaborazione col fratello Giovanni, medico e musicista, sempre al suo fianco, dagli inizi alla fine. Io mi azzardo a dire, osservando i suoi primi sketch e i testi delle canzoni, che Francesco è stato anche un poeta. Basti pensare a come definiva le sue compagne di set e di vita (un errore madornale che ha fatto tante volte, cercava la madre dei suoi figli e sposa devota in un’attrice, spesso attricetta, in carriera. Per forza finivano, le storie). Beh, lui le paragonava, senza alcun rancore, a degli elementi naturali bellissimi. La rossa De Sio il fuoco, imprevedibile e magnetica. Clarissa Burt (che lo lasciò di punto in bianco per Troisi), una stella, Ornella Muti la luna, “muove le maree”. Isabella Ferrari, che al momento dell’intervista era la sua compagna, era “tutti gli elementi, tutto, per me”. Povero, romantico Francesco. Proprio Isabella lo iniziò alla pittura, come Cecco racconta nella sua biografia, curata dal fratello:
“Nel novanta andai con Isabella a Ostenda, in Belgio, perché lei doveva girare un film e mi chiese di accompagnarla. Per la prima volta facevo il Damo di Compagnia. Mi annoiavo, come al solito quando non sono in prima linea, passavo i pomeriggi a traccheggiare, ‘sorseggiare’, vagare con la mente, chiuso in albergo. Isabella allora mi regalò – inaspettatamente – una bella confezione di acquerelli. Colori, pennelli e carta. Cominciai a dipingere, un po’ a caso, quasi vincendo un pregiudizio maschilista nei confronti di un’arte così tenue… la cosa mi prese, anche perché era un modo per scaricare la tensione, un’inquietudine che stava crescendo, che forse avevo sempre avuto. Poi passai a una pittura più corposa e impulsiva… scoprii la tempera acrilica. Con questa materia iniziai una specie di lotta con la superficie della tela. Più ero inquieto e più dipingevo, incollavo, tagliavo, strappavo. Il primo dipinto di cui fossi veramente soddisfatto fu una Pinocchia rosa. Sì, avete letto bene, una P-i-n-o-c-c-h-i-a. E’ un dipinto terribile. Bello e terribile… regalai questo dipinto a mio fratello. Non capii il senso profondo del dono e non lo capì neppure lui. Forse una confessione… ma anche se Giovanni l’avesse raccolta, che avrebbe potuto fare? Ero impenetrabile all’aiuto… sì, ho dipinto altre Pinocchie, altri Pinocchi, neri, rosa, gialli. Ho portato la figura fino all’astrazione; al posto della tela usavo anche gli asciugamani, che impregnati di colore sembravano sudari. Stavo male e dipingevo…. prima di ‘OcchioPinocchio’ (il suo film più costoso e di minor successo di pubblico e di critica), nessuno vedeva la mia maledizione, se non le donne che sciupavo. Poi è nata Ginevra, e ho dipinto un grande Pinocchio bianco”.
Il vero amore della sua vita è stata la figlia. A lei ha dedicato la canzone che aveva portato a Sanremo nell’88, “Sarà per te”. Se l’è potuta godere ben poco, la sua Ginevra, classe 1999, dopo l’incidente del 2006. Scrive Giovanni:
“Ora sei così. Un ragazzo a letto, tranquillamente costretto a letto. Lo sguardo smarrito, obliquo, aperto come un lago di riconoscenza. Erano anni che non vedevo questo sguardo, ché sempre lo nascondevi. Adesso, il nostro, è un parlarsi con gli occhi”. “Io sono il tema dell’abbandono – ribatte Francesco – l’asprezza dell’abbandono. … non è vero che ho cercato il successo, è vero il contrario… non è vero che io ho preso le donne, è vero il contrario. Ho fatto finta per anni di essere un Don Giovanni e sono ancora qui a leccarmi le ferite. E’ vero: ho avuto tante donne, tante macchine, tanti soldi, ma tutto si è bruciato in un baleno e tutto cio’ che mi è rimasto addosso è quella malinconia che qualcuno dice… chi è Francesco? Ho solo una certezza: il padre di Ginevra… ah, dimenticavo. Chi si vergogna di me, si vergogni di sè. Ciao”.
E lui ora se ne è andato. Nello stesso giorno di un altro dal nome più illustre, che ha riempito tanto le televisioni da non lasciare spazio in palinsesto per almeno uno dei suoi film. Film che hanno segnato un’epoca, con cui è entrato in molti cuori, ne sono convinta. Ma lui è andato via in sordina, già da anni non se ne parlava più. Del resto anche in vita il suo sorriso malinconico era di profonda comprensione per la meschinità umana… spero che ora sia finalmente libero dalle sofferenze fisiche e dell’anima e si accontenti di riempire le anime di chi lo ha amato veramente, come Ginevra, Giovanni il fratello e l’amico fraterno Giovanni Veronesi, e i suoi veri fan.
Ciao, Cecco.