Volodine: La stranezza è la forma del bello quando è disperato
Cosa è Angeli Minori, di Antoine Volodine, edito in Italia da L’Orma edizioni? Il susseguirsi di quarantanove storielle strane, detto in maniera semplice. Detto in maniera più complessa, si tratta di quarantanove narrat. Ovvero “Una sequenza poetica a partire dalla quale ogni fantasticheria è possibile, per gli interpreti dell’azione come per i lettori”, ma anche“La traccia lasciata da un angelo”.
Al lettore è continuamente richiesta complicità creativa, per costruire insieme un mondo a partire da elementi dissonanti, contrastanti, deliranti.
La stranezza è elemento costante e spinge il lettore in una dimensione che più che onirica si fa fastidiosa perché sfugge ad ogni facile spiegazione. Ma Volodine giustifica questa stranezza spiegando con parole semplicissime e sconvolgenti che “La stranezza è la forma che prende il bello quando il bello è disperato”.
Regolatori di lacrime, mele grigie, angeli inutili e insignificanti in picchiata su un pianeta che non riconosciamo. Embrioni cuciti, messi a maturare, covati come uova di pezza da un mucchio di anziane. Di cui una impersona la nonna dell’autore, o così pare. Perché i narrat sono, in fondo, “Minuscoli territori d’esilio dove continuano a esistere, bene o male, coloro di cui mi ricordo e coloro che amo. Chiamo narrat dei brevi brani musicali la cui principale ragione d’essere è proprio la musica, ma anche luoghi in cui coloro che amo possono riposarsi un istante prima di riprendere il cammino verso il nulla.”
I narrat non sono letteratura perché, semplicemente, “La letteratura è finita”. E, anche se l’enunciato di scrivere per mantenere viva la memoria dei trapassati ci riporta alla mente tutto un filone che va da Shakespeare a Ronsard, bisogna tenere a freno e restare sul pezzo. Meglio, sul narrat.
Oltre a ciò, i narrat sono un prodotto di narrativa post-esotica. Di cosa si tratta? È un filone di cui Volodine è inventore ed anche esponente unico e molteplice. Consiste nel creare un altrove immaginario, un senso di estraneazione nel lettore, un luogo dove è possibile sorprendersi e confondersi anche per chi ormai non conosce più il brivido dell’avventura nell’ignoto. Il mondo è colto in un momento di fusione, di mancanza di confini netti, in cui nomi e identità si sono mescolati, popolazioni esistenti e popolazioni immaginarie, lingue morte, vive, parlate, inventate. Ci sono alcuni luoghi dove si arriva soltanto in sogno, ad esempio il meraviglioso allevamento di tigri bianche. L’assenza di riferimenti spazio-temporali è norma, ci si muove in campi e ci si chiede cosa intenda davvero Volodine con un termine così volutamente inclusivo.
E i personaggi dei narrat? Sono quarantanove, alcuni ritornano, ce ne sono di più emblematici seppur sempre smussati, come Sophie Gironde, “La donna che amo e che non ho mai incontrato nella realtà, perché i corridoi sono progettati in maniera tale da impedirci ogni vera relazione umana con qualsiasi essere, reale o onirico che sia”.
C’è da convincersi che l’impossibilità di vere relazioni di cui parla la voce narrante non sia soltanto applicabile a Sophie ma una realtà valida ovunque. I quarantanove narrat riportano storie crudeli, tristi, malinconiche. Parlano di cannibalismo, di un’Africa che non c’è più, di sciamani e vecchie che operano riti atemporali, di procreazioni sciamanicamente assistite. Di popoli primitivi che fanno la guerra a chi ha ridato linfa al capitalismo, grande nemico delle quarantanove voci.
E tutti i narrat sono descritti attraverso intonazioni molteplici, spesso fuse fra loro attraverso l’uso del “noi”, complesse ma semplificate attraverso chiarimenti che non chiariscono niente, come si nota nei continui “dico questo per dire” con cui la voce narrante effettua l’estremo sforzo di comunicare fra extraterrestri.
Volodine ci ha abituato a non abituarci mai ai suoi scritti. A non sentirci mai a casa. Non sarebbe la prima volta, però, che si diverte ad indirizzare con giochi metanarrativi la critica dei suoi stessi brani, e non ci sarebbe da sorprendersi se proprio a se stesso riferisse il commento fatto in merito all’immaginario autore Fred Zenfl, che scrive “Libri costruiti su quel che resta quando non resta niente”.
Pessimismo? Non soltanto. I pezzi deliranti, estranianti e onirici di Volodine colpiscono perché in fondo, oltre gli intrecci che il lettore faticherà a capire, allo sfilare di personaggi sconosciuti in un mondo ignoto, traspare la grande tenerezza nei confronti di un’umanità dilaniata, disperata, delusa e deludente, sconvolta. E qui Volodine, o la voce narrante in cui entra, quasi fosse un angelo minore anche lui, lo ammette quasi a bassa voce: “Perché in realtà, anche se la collaborazione tra di noi era sempre stata piuttosto mediocre, la tenerezza che provavo per voi e le vostre convinzioni era inscalfibile, e ciò che mi auguravo per voi tutte era l’immortalità, o almeno un’immortalità superiore alla mia.”. Concetto ribadito quando spiega che il punto delle storie che narra non è la paura, non l’indignazione, non la tenerezza infinita verso tutto ciò che vive, non l’intenzione di lotta radicale contro la realtà e non la debolezza schizofrenica di fronte alla realtà, non un tentativo di canto di uguaglianza, di disgusto, di disperazione. Dopo una serie innumerevole di cose che ogni narrat non è, in cui il perspicace Volodine altro non fa che suggerire invece svariate chiavi di lettura, l’autore ammette:
“Tutto quello che racconto è vero […] Tutto ciò è già accaduto.”
Chiudo Angeli Minori e sento che l’estraneità nei confronti di questo autore che narra mondi totalmente sconosciuti si è smussata, che inizia ad essermi familiare nella sua prosa visionaria e allucinata, che gli voglio quasi bene.
Perché – lo avevo già scritto – sotto l’artificiosità delle sue parole, l’apparente senso di superiorità, il distaccamento, le storie crudeli, nel tentativo di sorprendere e confondere, emerge la volontà dell’autore di scuotere l’umanità, di scrollarle di dosso lo strato di polvere che le si è creato addosso, involucro che protegge i cinque sensi e preserva il cuore. A cavallo fra un narrat e l’altro, ho la sensazione che si ha quando si posa il piede su un vetro tagliente che spunta da un cumulo di sabbia, so di camminare sulla cruna di un ago sotterraneo e che quell’ago è la com-passione profondissima dell’autore.