La maschera
Non sono una bellezza classica, una di quelle che smuove gli specchi, occhi immobili, una patina verdastra in superficie, non inquietano mariti, non preoccupano mogli. Capelli scuri, labbra vuote, le iridi non mutano colore neppure con la rabbia. La mia maschera.
Non so cosa sembrino i miei capelli, non puoi pettinarli nemmeno, ordinari è la parola giusta.
La mia custodia imperfetta divora la vita e i giorni.
Sono la maschera appoggiata a me stessa, uniforme blu solitudine.
Sono la luce che imprigiona i passi del pubblico che tiene per mano la metà di un intero.
Ripetizione di gesti, passi diversi. Devo stare ben attenta che la pila non si scarichi, rientra tra le mie incredibili ordinarie mansioni. Il mio volto i miei pensieri? Oscurati, ordinari.
Traghetto corpi al posto giusto, per un’ora o due, il tempo che la celluloide si srotoli e la storia scorra sul grande pannello finché questo tornerà anonimo, fermo-immaginazione.
Smessa la divisa mi sistemo in una stanza, una vestaglia color palude, la borsa dell’acqua calda che è inverno, una finestra spalancata se è estate che l’aria è l’unico lusso.
Vuoto le tasche, pochi spicci, cosa ho racimolato oggi? Le mance scarseggiano, un foglietto di carta di quaderno, un numero telefonico scritto con cura, un ritaglio di giornale che avevo scambiato per una banconota, (che illusa!) un biglietto usato dell’ultimo spettacolo.
Sui vetri l’umidità della notte. No, nessun uomo. Addosso il ricordo di quelli che ti si strusciano nel buio anche se hanno le signore accanto. Nella sala, dove i volti sono schienali e le mani braccioli, ognuno può essere ciò che vuole, ma soltanto fino a che non si riaccendono le luci.
Prima di dormire faccio un giro per le mie due stanze, ogni cosa è in ordine, la polvere non saprebbe dove andare, accompagno i miei fantasmi al loro posto e click, spengo.
Spengo tutto. Voglio il buio assoluto, ordinario. La mia mente è un enorme telone nero dove scorrono ignorati i pensieri come i titoli di coda, troppo piccoli perché possano interessare qualcuno.
Spengo tutto perché non si affollino le immagini, in una sequenza che mi confonde e senza sonoro.
Sull’abat-jour spento metto un foulard sopra, (so che non ha senso per voi), qui non si lavora, la divisa floscia sulla sedia. Sotto le coperte il vuoto di un corpo senza possibilità, senza un uomo.
Domani la maschera sarà ancora al suo posto.