Piaceri e amarezze
Alle volte, per gustarsi i piaceri della vita, occorre affrontare delle difficoltà insormontabili.
Ad esempio a Delhi, se vuoi un caffè, devi andare da Starbucks.
Per farvi capire meglio, riporto uno stralcio di conversazione tra me e il torrefatore del mio cuore.
“Andiamo a prenderci un caffè da Starbucks oggi?”
“Piuttosto mi incateno al cancello e mi dò fuoco.”
Perché tutto questo astio verso l’unica catena che serve un caffè decente quando sei all’estero e hai come alternativa un infuso alla cicoria? Perché andare da Starbucks a Delhi significa come minimo avere delle crisi di identità, litigare furiosamente con il cassiere e prendere a pugni gli altri avventori per riuscire a mantenere il proprio tavolino. Perché alla fine non è più un caffè ma una specie di corso di sopravvivenza. Accelerato ed intensivo.
La scorsa settimana non abbiamo resistito e, complice un sole che metteva di buon umore, lo abbiamo fatto. Ci siamo andati.
“Sei sicura?”
“Sì. Mi sento pronta. Ormai non ci andiamo da sei mesi!”
La fila per pagare arrivava fino alla porta. Saremo stati sfortunati con gli orari, penso. Magari è ora di punta. Dopo un quarto d’ora di coda arriviamo alla cassa.
Ci sono circa 10 commessi. Disperati. Si muovono vorticosamente intorno al bancone, sembrano quasi vespe che sbattono contro la lampada accesa. Che alla fine, se non fosse che ormai te stanno a venì le vene varicose perché stai in piedi dall’anno del mai, ti fanno pure tenerezza e gli vorresti dare una pacca sulla spalla e dirgli “Va be’ dai fratello, la giornata è quasi finita”. Ma è un quarto d’ora che stai in coda, fa un caldo che manco nel deserto e il profumo di umanità sudata sta prepotentemente entrando nelle tue narici facendoti passare la voglia di brownie al cioccolato. Meglio, tanto stai pure a dieta.
A spintoni, perché tutti vogliono passarti davanti ma non hanno capito che te sei italiana e fai a botte anche per entrare in metro, riusciamo a piazzarci davanti alla cassa. E a quel punto l’orrore che si fonde con l’amarezza.
“Due espresso e un cookie al cioccolato” scandisco forte e chiaro
“Tre espresso?” risponde il cassiere
“No. Due espresso e un cookie al cioccolato”
“Un espresso e due cookie?”
Sono un po’ spiazzata. Temo mi stia prendendo per il culo ma non può essere. Solo un masochista farebbe finta di non capire un ordine quando c’è una fila lunga un chilometro.
“No. DUE ESPRESSO E UN COOKIE AL CIOCCOLATO!”
“Ok. Ma stai calma eh.”
Che io poi una scarpata in mezzo alla fronte te la darei volentieri, caro cassiere, ma a furia di stare in piedi con 45 gradi, i miei piedi si so gonfiati e le scarpe non escono.
“Madame mi dici il tuo nome, così lo scrivo sul bicchiere?”
La mia metà migliore, consapevole che un nome di 7 lettere come il mio potrebbe essere fonte di ulteriore confusione, interviene.
“Luigi. L- U I G I. Capito?”
Il vuoto pneumatico attraversa il cervello del cassiere che ci osserva con occhi vuoti. Rimaniamo un po’ in silenzio. Mi fisso la punta delle scarpe. La mia metà migliore è anche la mia metà sudata. Lo so che mi odia perché lui, invece di andare da Starbucks, se ne sarebbe stato volentieri sul divano e sotto l’aria condizionata.
Poi risolutamente esclama. “James, mi chiamo James!”
“No sir, tu non ti chiami James.”
La tensione si taglia col coltello. La gente dietro di noi spinge, il caldo è soffocante e noi continuiamo un braccio di ferro senza senso col cassiere.
“Ho detto JAMES!”
“E ok, ok, ti chiami James”
Siamo stremati. Andiamo a prendere l’ordinazione.
Tre espresso e un cookie al caramello.
Se c’è una morale non l’ho ancora capita tranne, forse, che la pazienza è la virtù dei morti.