Il mondo salvato dai racconti – prima parte
In Italia, Raymond Carver è considerato lo scrittore di racconti per antonomasia, accostato al minimalismo, un tratto stilistico in realtà creato a tavolino dal suo editor Gordon Lish. Uno stile che generò una folta schiera di emuli amanti della scrittura piana e scrupolosa, che riesce a rendere naturale lo sforzo retorico della sintesi. Dato che nei prossimi articoli mi piacerebbe parlare di alcune fra le più note webzine e riviste cartacee nello scenario letterario presente, ho pensato che oggi vorrei riflettere sul modo in cui il racconto si è evoluto nel novecento e quali sono le tendenze che ha saputo esprimere.
Secondo Borges, ogni romanzo di cinquecento pagine può essere riassunto nello spazio di cinque facciate e come lettrice di romanzi, posso confermare questa deduzione valida senz’altro per molti grandi autori americani. Penso a Franzen, a DeLillo, Wallace e ho la sensazione che il postmodernismo abbia calcato vistosamente sulla descrizione di un mondo dominato dalle parole, la cui onnipresenza si sostituisce alle divinità classiche. L’ultimo libro che ho letto del quale non ho apprezzato la lunghezza è stato Amabili resti di Alice Sebold (ed. e/o), dove la trama si esaurisce in poche pagine, ma la narrazione prosegue nel disperato e vano tentativo di riallacciare i destini dei personaggi secondari.
Dal canto suo, la narrativa post-coloniale ha seguito spesso le orme del post-modernismo, flirtando con l’idea di dominare la conoscenza attraverso le parole, e penso soprattutto a Salman Rushdie e Vikram Chandra. I loro romanzi più noti, rispettivamente I figli della mezzanotte e Terra rossa e pioggia scrosciante, sono incredibilmente corposi e denotano una scarsa dimestichezza con la narrazione breve. Se il romanzo concede massima libertà espressiva, il racconto, specie se breve, educa alla reticenza e alla discrezione nei confronti delle vite dei personaggi: come conferma lo scrittore Paolo Cognetti nel saggio (ad impianto narrativo) A pesca nelle pozze più profonde (ed. minimum fax) il racconto privilegia l’esplorazione dei dettagli, l’indagine appena parziale dei personaggi con l’effetto di amplificarne il fascino, senza che le assenze si trasformino in uno sguardo superficiale sugli eventi. Ho letto spesso, sempre senza condividerne una sola virgola, critiche allo stile denso di Alice Munro, per la velocità con la quale semina gli elementi salienti, dando per scontato che il lettore sia in grado di riordinarli. C’è anche chi le rimprovera i flussi di coscienza in miniatura, perché non rispondono all’esigenza di descrivere il personaggio a tutto tondo e “fanno perdere tempo”. Di recente, nella cassetta della posta, ho trovato un volantino che pubblicizzava un corso di scrittura dove si apprende a creare un personaggio che respira. Cosa intendessero resta un mistero. Un personaggio verosimile? Un personaggio di cui non sappiamo tutto e che quindi possa respirare in santa pace, al riparo dalla curiosità morbosa del lettore? Dentro di me, ho sperato per la seconda ipotesi. Il peggior torto che si possa commettere verso il proprio lettore credo sia annoiarlo con descrizioni esasperanti del personaggio e pertanto adoro le descrizioni asciutte della Munro.
Il peggior torto che si possa commettere verso il proprio lettore credo sia annoiarlo con descrizioni esasperanti del personaggio e pertanto adoro le descrizioni asciutte della Munro.
A questo proposito ritengo sia illuminante la confessione di Irène Némirovsky, che annotava su un quaderno i dettagli più infimi dei personaggi, per poterli scartare con misurato calcolo dal romanzo, nella piena consapevolezza di aver risolto le proprie lacune del personaggio, senza però aggiungere nulla, nel suo caso, ai romanzi. Assomiglia molto alla strategia descritta come “la punta dell’iceberg” tanto cara a Ernest Hemingway, che consiste nello scrivere circa un ottavo di tutto ciò che si conosce di una vicenda, inseguendo una concisione che metta in luce le emozioni che rischiano di rimanere nascoste a causa di troppe digressioni. La cosiddetta epifania è spesso alla base di un grande maestro russo dell’arte del racconto, Anton Cechov. Ricordo di aver letto un racconto nel quale non accade nulla di eclatante e si parla di un treno che porta con sé una tela di ricordi, rivissuti attraverso un flusso di coscienza elegante, misurato, ma non per questo meno efficace. Mi rendo conto che molti racconti brevi non soddisfano le abitudini letterarie di coloro che leggono i romanzi perché sono completi e non lasciano domande. Spesso, gli autori del novecento hanno giocato con la struttura del racconto, alterandola per scrivere finali monchi e incipit in medias res. Non so voi, ma personalmente apprezzo tutti gli espedienti che problematizzino la mia lettura. Rispetto a un romanzo, che risulterebbe molto sperimentale se iniziasse dalla fine, in un racconto la stessa scelta mi entusiasma.
Tuttavia, la maggiore apertura alla sperimentazione è un’arma a doppio taglio. Potrebbe infatti sembrare che scrivere racconti sia meno impegnativo, dato che non ci aspetta che lo scrittore spenda tutte le sue capacità. Arrivo alla mia confessione. Prima di iniziare un romanzo, me lo chiedo più volte, mentre il racconto mi trasmette la sicurezza di doversi esaurire in poche pagine. Un romanzo presuppone responsabilità narrative che talvolta fanno sì mi annoio nella lettura. Una piacevole eccezione è stato il romanzo La vegetariana della coreana Han Kang, dove non c’è nessuna tesi dietro all’illogica scelta della protagonista di nutrirsi sempre meno. Manco a dirlo, la Kang ha scritto molti racconti!
Infine, secondo Faulkner, romanziere sperimentale, il racconto è difficile quanto la poesia ed è per la sua difficoltà che spesso i narratori esordienti si “riducono” a scrivere romanzi.