Saleem Haddad sulle note dei Mashrou’ Leila
“Ultimo giro al Guapa” è un meraviglioso romanzo. Punto.
Sarebbe semplice, sui media, pomparlo, gonfiarlo come un palloncino e lasciare che si libri per aria decorato con parole tipo “gay”, “arabo”, “musulmano”. Lo è stato, stando a tanti articoli che sono stati scritti in merito al suo esordio narrativo. Eppure sono parole che, come palloncini appunto, non hanno dentro nient’altro che aria, se considerate senza contesto. Il libro di Saleem Haddad invece narra anzitutto la complessa storia di un’identità in via di definizione, è un romanzo di formazione lineare eppure indimenticabile. Ma facciamo rewind.
Un giovane autore di origini mediorientali trapiantato a vivere in Occidente, nello specifico a Londra, dichiaratamente gay e che lavora nell’ambito sociale. È Saleem Haddad a cui, per ovvi motivi, non posso non sentirmi vicina. L’ho visto lo scorso anno sul palco del Pride Village di Padova, dove è stato intervistato di fronte a un vasto pubblico, e mi ha subito interessato la sua storia. Soprattutto, ero certa che quell’intervista non bastasse ad affrontare le tematiche che Saleem voleva mettere in luce, perché il grande pubblico impone semplificazioni ed ostacola analisi approfondite, ma anche perché un ragazzo come Saleem rischia facilmente di essere vittima di generalizzazioni. È facile chiedergli di primavere arabe, della strage di Orlando, dell’ISIS, di integrazione e del futuro dell’Europa dimenticando che, prima di tutto, Haddad è l’autore di un’opera di narrativa che, per quanto socialmente impegnata e rappresentativa, resta comunque un validissimo prodotto artistico-narrativo.
Ho quindi sentito la necessità di avvicinare l’autore dopo l’intervento per annotarmi i suoi contatti con la promessa di intervistarlo, prima o poi. Abbiamo scambiato due battute in fretta, il tempo di raccontare velocemente le mie origini e il mio presente per fargli capire senza bisogno di commenti che calpestiamo entrambi un terreno fertile per le generalizzazioni. L’accenno al fatto che l’analisi grossolana del libro mi ha lasciato con il desiderio insoddisfatto di analizzare più a fondo la storia del giovane protagonista, ma anche di Haddad autore, con cui sembro avere più di un punto in comune. Con il mio appunto fra le note del cellulare, mi sono data al dj set con più soddisfazione. La soddisfazione però ha raggiunto l’apice quando ho finalmente comprato il libro e ne ho portato a termine la lettura.
“Ultimo giro al Guapa”, edito in italia da E/O e purtroppo ancora non presente sul mercato in arabo, è la storia di Rasa, giovane arabo di educazione islamica che fa i conti con il significato profondo “dell’arabità” e dell’appartenenza religiosa ma, soprattutto, con la sua omosessualità in un contesto ostile. Ho divorato la lettura perché racconta una realtà che conosco bene, la racconta come la esperisco io stessa, mescolando parole italiane e arabe perché alcuni concetti non si possono tradurre, facendo dell’appellativo dato alle nonne, “Téta”, quasi un nome proprio, descrivendo il rapporto conflittuale con quella scala valoriale così rigida e ambigua che si insinua in ogni relazione in Medio Oriente. Probabilmente non sono l’unica a sentirsi rappresentata da Rasa e dalle parole di Haddad, perché il Guapa, locale underground frequentato dalla comunità LGBT, è un luogo fittizio che potrebbe essere in qualunque paese mediorientale. Non si può chiedere a Saleem un parere politico e sociale, perché Saleem non ha scritto per fornire risposte ma semplicemente per raccontare una storia. La storia di Rasa che viene scoperto da Téta mentre sta a letto con un altro uomo, ma anche delle retate, della tensione politica, della voglia di sballarsi come se non ci fosse un domani – che infatti, nel clima di guerra, potrebbe effettivamente non esserci. E ancora, di un sistema basato sul senso di onore e di vergogna, sulla distinzione netta fra pubblico e privato, sull’apparenza.
È un romanzo di formazione in cui vediamo Rasa allontanarsi per cercare e cercarsi e alla fine tornare, in cui compare e subito scompare la debolezza di quella nonna così autoritaria che fa del silenzio la sua arma, è la storia invisibile di una madre sempre sminuita dalle narrazioni familiari che porterà Rasa ad interrogarsi su quanto le rappresentazioni che ha sempre accettato gli appartengano davvero. La trama può sembrare semplice e lineare, ma racchiude in sé profonde riflessioni sull’identità. Non è forse un caso se a parlare di identità, fra i tanti, sia un conterraneo di Haddad, Amin Maalouf: è il Libano stesso, terra di mescolanze eppure piccolissimo Stato con una fortissima identità, a partorire, attraverso i suoi esponenti culturali, alcune questioni utili all’intera umanità. È il Libano che, nella sua situazione politica complessa, porta i suoi abitanti a godere di ogni singolo momento. Mi spiega Saleem: “Alcuni dei migliori party a cui sono stato erano proprio in zone di guerra”.
Quando chiedo di spiegare al lettore occidentale cosa sia, di preciso, l’ “eib” oltre ad una semplice vergogna, mi risponde che “è dettata da una convenzione sociale e un desiderio di presentare un’immagine positiva della società. Per questo spesso i genitori insegnano ai figli, sin da piccoli, cosa è eib e cosa non lo è per mantenere le convenzioni sociali ed evitare che nella comunità girino voci negative. Nelle dinamiche relazionali il concetto di eib riveste quindi una funzione molto forte. Penso che ogni società però abbia la propria versione di eib, su diversi gradi”.
Se questo tipo di vergogna ha sicuramente a che fare con l’ipocrisia, sta di fatto che spesso e volentieri è anche appiglio per sorvolare alcuni discorsi, restare sul vago, non definire alcune dinamiche, quasi nella convinzione che ciò che non viene detto non sia mai esistito.
Rasa, il protagonista del romanzo, lavora a contatto con il mondo culturale ma non nega che questo venga considerato in patria un lavoro di “basso profilo”. So bene di cosa parla, quindi chiedo a Haddad di approfondire la questione.
“Penso che in Medio Oriente, in assenza di uno stato che assicuri servizi sociali ai propri cittadini, ci sia una forte pressione sull’individuo, in particolare sugli uomini, perché provveda al supporto dei familiari grazie ad un lavoro che garantisca un guadagno elevato”.
LK: In un momento di debolezza Rasa si sente esattamente come i rifugiati che ha attorno. Non è più immune, si sente uno di loro.
SH: Penso che in quel momento sia il suo senso di smarrimento da sé e dalla società a farlo sentire vicino ai rifugiati. I rifugiati sono stati forzati a lasciare le loro famiglie a causa della guerra e Rasa, scoperto a letto con un altro uomo, è cacciato dalla società con un senso di vergogna.
LK: Parliamo di comunicazione: Rasa nasconde la sua vera identità, ma scopriamo che anche Teta vive una vita misteriosa che il lettore ignora. La vediamo chiudersi in camera, ben attenta a non far trapelare le sue azioni. Perché pensi che in Medio Oriente le persone appaiono così calorose ed aperte ma sono così a disagio quando è il momento di parlare di sé?
SH: Penso che in Medio Oriente ci sia un’enorme differenza fra sfera pubblica e privata. Questa differenza c’è ovunque, ma lì si sente più forte. Per molti versi ciò è positivo perché su alcuni temi viene rispettata profondamente la privacy, ma può anche comportare uno scisma se il lato pubblico e quello privato sono molto diversi – nel caso di personaggi come Taymour – e in contrasto uno con l’altro.
LK: Anche io ho avuto una nonna libanese e ho scritto di lei, so qualcosa di come le Téta sappiano essere silenziosamente potenti. Il potere silenzioso di Téta muove tutto nella vita di Rasa, come una mano invisibile. Pensi che si possa parlare di un forte potere femminile che controbilanci il patriarcato in Medio Oriente?
SH: Tutti abbiamo un ruolo nella società e io volevo esplorare questo ecosistema politico e culturale, il patriarcato e le contraddizioni che nasconde: come possiamo essere al tempo stesso vittime ma anche in un certo modo sostenitori del patriarcato, come lo è Téta.
LK: Leggendoti, non posso non pensare alle canzoni dei Mashrou’ Leila. C’è una playlist mentale a cui fare riferimento leggendo “Ultimo giro al Guapa”?
SH: Sì, ho creato una playlist. Eccola:
https://soundcloud.com/saleem-haddad/sets/guapa-playlist
Quando ho avuto fra le mani la playlist, avevo personalmente già letto il romanzo. A chi non lo avesse fatto, consiglio di unire lettura e ascolto musicale, intervallarli fra di loro, per dare a questo Bildungsroman a cavallo fra continenti la forma di un piccolo capolavoro artistico multisensoriale. Perché di questo si tratta, e non di opinionismo da strapazzo.