Se io fossi l’Arminuta
Ho un problema con i libri. Mi lascio trasportare dal loro entusiasmo, dalla tristezza dei loro personaggi, dai loro primi amori, dalle delusioni che filtrano le pagine e arrivano intatte sotto la pelle.
L’Arminuta è stato un continuo alternarsi di pugni e carezze, di lacrime che si trattenevano a stento sulla rima dell’occhio e di un senso d’abbandono che mi ha appestato le viscere come un gas soporifero. L’Arminuta non ha un nome, solo una definizione in dialetto abruzzese: colei che ritorna. Questa ragazzina è figlia del rifiuto e della speranza delusa, visto che è stata data via quando aveva sei mesi per poi essere restituita alla sua famiglia biologica tredici anni dopo, contro la sua volontà. Il distacco fa ancora più male perché non porta risposte. Colei che ritorna, colei che non ha un nome, non sa neppure perché è stata restituita, perché è passata da una vita di agi ad una casa troppo piccola, con troppe persone e poco cibo. Non lo sa e si aggrappa al fatto che sua mamma adottiva sia malata, che un giorno guarirà e tutto tornerà come prima.
Non c’è altra spiegazione agli occhi innocenti di chi è stato dato e ripreso. Ha due mamme, ma capisce che essere madre è un luogo, una parola confortante piena di calore e per questo imparerà presto a smettere di usarla. In compenso imparerà una parola nuova, sorella. Una sorella minore sveglia e affettuosa dal nome di Adriana. Con lei condividerà un materasso sformato troppo stretto, imbottito di lana e imbevuto della pipì della sorella che non riesce ancora a trattenersi del tutto. Quel calore umano è l’unica cosa che avrà quando tutto ciò che sentirà fino alle ossa è un profondo, tremendo e viscerale senso di abbandono.
La scrittura è limpida, secca, precisa nel modo in cui descrive sentimenti crudi, sensazioni forti che non hanno bisogno di essere abbellite. Devono essere sentite così come le sentiamo nella vita reale: senza preavviso e in tutta la loro brutalità. Il dialetto si mischia all’italiano mentre ambienti diversi prendono vita, ogni personaggio si incastra nel suo stato sociale e l’Arminuta resta lì, in bilico tra due posti che non sono più casa.
Io non so cosa farei se fossi un’arminuta. Non so con quanta dignità riuscirei ad entrare in un luogo, scrollarmene via un altro. Non so nemmeno se riuscirei ad amare o a perdonare solo perché la biologia ha creato legami inesistenti. Non saprei colmare quei silenzi nuovi con una mamma antica e non saprei creare distanze con quella mamma di sempre che poi mamma non è stata più. Se l’Arminuta esistesse davvero io la vorrei abbracciare fino a svuotarla dal senso di rifiuto, da quel gesto cattivo e sterile. La abbraccerei così forte da farla sentire voluta da due famiglie, anziché rigettata da entrambe.
Ma questo libro è come la vita, spesso il lieto fine significa imparare a convivere con quel dolore che non urla più, ma che sta acquattato in un angolo, pronto a mordere appena abbassiamo la guardia.