“La maestra di campagna”, quando la quiete inquieta
La banalità che appare nelle prime primissime pagine del primo romanzo di Luciano Lamberti, La maestra di campagna, edito da Gran Via, è un inganno: deriva dal tentativo di sopprimere la follia, asportata come un tumore per mantenere una parvenza decorosa.
“Tutto normale. Molto normale. Quasi oscenamente normale”.
Lo dice anche Santiago, uno dei personaggi principali. Se non che, già dopo poche pagine il lettore capisce di essere chiamato a farsi detective, scavando a ritroso sulle tracce di Angélica, la maestra di campagna. Attraverso una molteplicità di voci che riportano ognuna una declinazione differente dei fatti, si scivola in un citazionismo tutt’altro che scontato che attinge alla bella poetessa Juana de Ibarbourou, a Gabriela Mistral, ma anche ai Radiohead, a Robert Frost, a Emily Dickinson, passando per le note di “Inconsciente Colectivo” di Charly Garcia. Per non parlare degli omaggi, chissà se voluti o meno, a Barbablù o alla leggenda del brano musicale maledetto “Gloomy Sunday” (nei paragrafi successivi intuirete il perché).
Ciò che emerge è un quadro sempre più frammentato, il ritratto caleidoscopico di una vecchia signora abitudinaria e solitaria che sembra non corrispondere all’immagine che le sue opere danno di lei.
Santiago rimane travolto quasi morbosamente dalle liriche scritte dal pugno della maestra di campagna: è lui il più ostinato nella ricerca della donna. Eppure, lo si legge sovente, gli scrittori non andrebbero mai conosciuti di persona. Pena la delusione profonda di ritrovarsi di fronte esseri molto più banali di ciò che si vorrebbe o, al contrario, il trauma di scontrarsi con qualcosa di troppo conturbante, quasi fastidioso. O magari, entrambe le cose contemporaneamente, come nel caso di Angélica.
L’inquietudine si fa spazio, attraverso gli spiragli, fra le pagine di un libro comparso in circostanze poco chiare, avanza lentamente, plasmando “crepe nei nostri tranquilli e confortevoli mondi reali”.
La maestra di campagna in fondo non racconta altro se non l’incontro di un libro con un lettore in un momento di svolta radicale nella sua vita. Santiago è un giovanotto in cerca di una salvezza rispetto al vuoto e, per sua stessa ammissione, egli cade nel tranello della libera interpretazione della realtà che lo circonda, riversando la sua passione ovunque vi sia uno spazio libero. Basti assaporare il passaggio riportato nell’immagine.
Santiago oscilla fra l’aspirazione ad indagare l’ermetismo dell’anziana autrice e i segreti arcani della vita e, d’altro canto, la pigra tendenza di venticinquenne a lasciarsi cullare da alcool ed erba, aspettando che il mal di vivere passi e riconducendo all’assunzione di sostanze stupefacenti ogni piccola deviazione della vita rispetto alle norme e alla razionalità.
Come una droga, il libro di cui Santiago entra in possesso lo travolge e lo risucchia, lo cattura quasi morbosamente trascinandolo ad un passo dalla follia. Fra quelle pagine scorre un mistero sublime e letale, qualcosa come la droga e come l’amore che al contempo sa far godere e uccidere. Proprio questa spinta viscerale di trascendere la semplice lettura dell’opera porta Santiago in uno spazio in cui è difficile capire se l’autrice del testo sia davvero la vecchia, trascurata donna che il ragazzo vuole intervistare oppure se la sua sia una farsa messa in atto per proteggere da misteri indicibili che si posizionano oltre la materialità dei fatti. Santiago è scisso fra la tentazione di chiudere gli occhi ed abbandonarsi a una fede cieca e la voglia, invece, di aprire gli occhi e toccare con mano l’orrore che subodora e su cui cammina tentoni.
La maestra di campagna è un libro inquietante e banale, inquietante perché banale, inquietante perché finisce per stimolare quella parte di noi che si rifiuta di concepire la banalità e che preferisce dilettarsi nella costruzione di storie per sublimare la vita monotona di un’insegnante in pensione, di uno studente in cerca di una strada da perseguire, di tanti altri personaggi che si muovono nel romanzo di Lamberti. Il lettore costruisce la trama insieme ad essi, cerca
Crediamo di leggere l’Iching, i movimenti dei pianeti, i fondi di caffè, ma in realtà leggiamo noi stessi
“Crediamo di leggere l’Iching, i movimenti dei pianeti, i fondi di caffè, ma in realtà leggiamo noi stessi”.
Di fatto è proprio l’anelito di scoprire, più che di capire, cosa si trova in fondo ad ognuno di noi che spinge avanti nella lettura, anche quando tutto sembra sussurrare il monito di rimanere cauti e fermarsi. Siamo tutti Santiago, spaventati ma ostinati. C’è del metaletterario, sì, ma non c’è retorica.
Cerchiamo fuori in ogni anfratto per trovare qualcosa che abbiamo nascosto dentro ma che non riusciamo a toccare nemmeno accartocciandoci su noi stessi come animali in preda a convulsioni.
Cerchiamo nella lettura, nella letteratura, nella poesia, nei volti assenti delle anziane nei paesotti, negli incubi di notte, nelle canne che ci eravamo promessi di non fumare, nel pretesto delle interviste muniti di registratore amatoriale.
Cerchiamo dappertutto. Non troviamo niente, ma proseguiamo testardi.
Non troviamo nulla, tranne una primitiva forma di fede che non abbiamo mai smesso di conservare nell’intestino.
Tranne la voglia di vivere, di spaventarci, di appassionarci ancora per motivi futili, di correre a gambe levate, di provare orrore o amore con la stessa alternanza con cui si scambiano poche lettere di fronte a una stessa desinenza.
Ecco cos’è, leggere La maestra di campagna. Un piccolo atto di fede, un grande atto di disubbidienza, un voto all’eterna curiosità che costruisce e distrugge.