Vorrei essere figlio di un uomo felice
Da Gaber a Kundera, da Paul Auster a Valerio Magrelli: Gioele Dix, in “Vorrei essere figlio di un uomo felice”, in scena dal 26 al 28 aprile al Teatro Verdi di Padova, si aggrappa a nomi celebri per raccontare la figura importante, maiuscola, ingombrante, per usare le sue stesse parole, che fu suo padre.
Fra riferimenti metaletterari e digressioni agrodolci sul suo passato, l’attore, solo sul palco in mezzo a una scenografia minimalista che si rifà al mare e richiama l’andirivieni delle navi, sembra ondeggiare a sua volta fra la dimensione paterna e quella filiale, che gli appartengono entrambe. In un rimando continuo fra due figure diverse e complementari, due tempi distanti ma contemporanei – c’è chi, di esser figlio, non smette mai… -, Dix interloquisce col pubblico accompagnandolo in un viaggio nei primi quattro canti dell’Odissea, quelli che narrano di Telemaco e della sua ricerca del padre Ulisse, tentando di passare per il greco antico per poi optare per una comprensione ottimale in italiano.
Un italiano di base, fruibile da tutti, che racconta la mitologia classica dipingendo divinità attualizzate – un’Atena psicanalista dell’Olimpo che si sposta dalla cucina al bagno turco -; che si ispira a tematiche universali e profonde – il rapporto fra padre e figlio -, accenna a ridicolizzarle per poi riportarle in alto con immenso rispetto e abbozzare con poche parole un abbraccio in silenzio, un ritrovamento dopo anni di distanza, una lacrima che scende sul viso.
Si mette in gioco, Gioele Dix, in questa sfida doppia di divulgazione didattica – i contenuti dei primi capitoli del caposaldo della letteratura greca classica – e catarsi personalissima. La quale implica andare oltre l’identità di un padre troppo importante, stimato, sopravvalutato, per trovare la propria. Perché, citando Kundera, come fa lo stesso Dix, è possibile “vivere al di fuori del propri anni” e c’è un bambino in ognuno di noi, ma non si può esser soltanto figli per sempre: arriva il momento in cui è necessario lasciarsi alle spalle tristezze, gestualità e pensieri anche inconsci che si sono appresi crescendo e creare un microcosmo nuovo. Non lo si può fare semplicemente scavalcando il passato ma attraversandolo. C’è chi lo fa presto, chi tardi, chi mai.
Il comico non nega di rispecchiarsi profondamente nella figura di Telemaco: troppo goffo, timido, inetto, allo sbando, cresciuto all’ombra di un padre protagonista, all’antica, un eroe greco in ogni senso, distante col corpo e con l’anima, un riferimento sbiadito fra le onde del mare e poi finalmente ritrovato. E, mentre racconta di Telemaco, che parte alla ricerca del padre, Gioele Dix propone, come epilogo, la scoperta di se stessi.
“Vorrei essere figlio di un uomo felice” merita di esser visto per più di un motivo. Anzitutto, perché racconta di uomini che rivendicano i loro sentimenti più profondi e umani, procedimento non proprio facilitato nella società odierna che li vuole costantemente aderenti al prototipo virile e distaccato. In secondo luogo, perché il tono a tratti cabarettistico regala allo spettacolo una leggerezza che facilita l’apprendimento di alcuni concetti base tramandati fra le righe: immagino un pubblico di liceali che finalmente riscoprono quello che pensavano essere un inutile mattone incomprensibile e culturalmente distante. Poi, perché parla di una distanza poco indagata, quella fra padri e figli, – geografica, umana, fisica – che si può colmare con un viaggio, con un abbraccio, con qualche parola, ma che a volte resta tale e quale fino alla fine. Lietmotiv del monologo è infatti il confronto fra un passato fatto di pudore e rispetto per l’anzianità e un presente in cui questa distanza generazionale si assottiglia e probabilmente rimpicciolisce la figura paterna avvicinandola a quella dei figli, ostacolandone l’idealizzazione. E’ forse finito il tempo dei padri eroi? Gioele Dix non risponde, ma lascia il pubblico con una risata commossa stampata in volto. Perché siamo tutti figli di un padre, e vorremmo tutti essere figli di un uomo felice.