5 – La vittoria della pioggia
Ricominciò a piovere e Margherita se ne andò senza ombrello. La preoccupazione di bagnarsi non doveva nemmeno sfiorarle il pensiero. Mi aspettavo che si voltasse in cerca del mio sguardo, ma andò invece dritta per la sua strada. Sorrisi al senzatetto senza convinzione e scappai via senza dire una parola. In un’altra circostanza sarei stato felicissimo di vederlo, di presentarlo a Margherita, di raccontarle la storia del libro, della stessa carta da regalo, del fato un po’ magico che ci faceva ritrovare ancora una volta in una città così grande, chissà per quale motivo. Ma le ore impalpabili di quell’incontro erano state una montagna russa di emozioni; le sue ultime frasi mi avevano ferito come un colpo di frusta che arriva all’improvviso e fa schizzar via frammenti di carne viva. Se da fuori dovevo sembrare integro, dentro di me una bomba era appena esplosa; nessun muscolo, organo o osso, nulla di quello che mi componeva, si era salvato. Il mio corpo era un contenitore vuoto che si teneva in piedi senza troppo senso.
La pioggia d’un tratto si era fatta violenta e l’unico desiderio che sentivo di avere, era quello di allontanarmi da quel posto, da quelle mura traditrici che avevano origliato tranquille la nostra lunga conversazione e che tranquille erano rimaste anche dopo la notizia bomba. Volevo scappare via da quel bar che per ore mi era sembrato accogliente e che adesso era una scena del crimine. Perché non me l’aveva detto prima? Avrei dovuto capirlo dal suo sguardo. Ma forse ha ragione lei, il tempo ci ha cambiato e io non la conosco più, non la so più leggere. Questo tempo mi sembra fin troppo tiranno oggi: mi ha sbattuto in faccia gli anni scorsi come l’acqua sotto i ponti e poi, come per rispondere con superiorità a un invito a cena, mi ha informato che lui ha altri piani e che non ci sarà. E io senza di lui non potrò fare nulla, non potrò reimparare a decifrare quel verde pallido e intenso, non potrò più viverlo. Come se l’avessi già persa, stasera stessa. Non è giusto.
Il caos di una Roma trafficata sotto la pioggia è proprio il rumore insensato che mi serviva per riempire il mio vuoto. Non lo apro nemmeno l’ombrello. Il baccano nervoso dei clacson fa spazio al rombare più serio dei tuoni che, a intermittenza ma senza sbavature, copre tutto il vociare cittadino. E io do ragione a questa pioggia, ha un senso la sua irruenza. La natura vince sempre, su tutto, non guarda in faccia a nessuno.
Non voglio tornare a casa, non sono diretto in nessun posto, ma vado veloce. Non sono capace di pensare per me, e allora mi aggrego, seguo il ritmo della rete di passanti bagnati che corre inviperita. Voleva vedermi, è stato bello vedermi. Mi era sembrata davvero sincera. Non avrei dovuto lasciarla andare via senza ombrello. Lei sa sempre cosa fare, ma stavolta si bagnerà. Se corro verso la stazione forse ho ancora speranza di ritrovarla, dormirà sicuramente a casa di suo padre stanotte, posso provare a parlarle, a rivederla. È successo tutto troppo in fretta. Non avrei dovuto lasciarla andare. Come si fa a capire quando si sta commettendo un errore madornale? Perché alla mia età ancora non so a quali voci dare retta e quali invece zittire?
All’improvviso la tensione che mi pulsa in testa si scioglie. Le lacrime iniziano a sgorgare in sordina con la pioggia, si confondono, mi confortano. Sto piangendo, ci sto riuscendo, non smetterò più. Ho fatto bene a lasciarla andar via. Adesso mi appare più chiaro. Rispettare il suo volere è il minimo che le dovessi. Margherita non la vuole la mia disperazione, e io non voglio obbligarla a riceverla. Lei è forte, lo è sempre stata, in ogni sua azione, in ogni suo sguardo, in ogni sua decisione o risata. E io che sono grande e grosso mi sento piccolo rispetto alla sua potenza, alla sua risolutezza; non posso far altro che ammirarla a distanza, in silenzio, con gli occhi di un bambino. Che cosa sono stato io per lei? Quale ruolo ho avuto nella sua storia e quale avrò nella sua memoria?
Mi vibra la tasca. Un messaggio di Margherita.
(cc)
A modo mio ti ho amato, Gianluca. E’ stato bello vederti. Addio.
Addio? E ora che cazzo vuol dire addio? Il cuore si agitava con rimbalzi doppi e tripli, alle lacrime di dolore subentrava la rabbia. Una rabbia profonda, inspiegabile. Che cazzo vuol dire addio?
Scusa, perché addio? In che senso?
…muto…
Il segnale è inequivocabile, non appare nessuna spunta verde. Non si vede più lo stato della connessione. Margherita mi ha bloccato. Strano modo di dirsi addio, che diamine. Un tempo forse avrei saputo direttamente che era morta, da qualche conoscente incontrato per caso. Margherita? Ah quella, eh, poraccia, è morta di cancro otto anni fa. Oggi invece Whatsapp e le sue spunte verdi, e i suoi vocali interminabili e odiosi ci hanno tenuto bene o male in contatto, nelle alterne stagioni della nostra distanza. E adesso lo stesso strumento che avvicina le distanze, con un’altra funzionalità mi mette alla porta. Bloccato, fuori dalla sua vita, con il tap di un dito.
Così ha deciso, amen, si volta pagina allora – mi dico tra le lacrime – si volta pagina – digrigno i denti – in fondo posso farne benissimo a meno, ne ho fatto a meno per sei anni – mi cola pioggia e sudore – e almeno non saprò nemmeno se sarà guarita o – singhiozzo – se non lo sarà, e lo sguardo di un tizio mi riprecipita in questo mondo, dove piango, e gesticolo e parlo da solo, col cuore in gola, in mezzo alla strada, senza una meta precisa. Sono in totale stato confusionale.
Però insomma, piove ancora, di sicuro sta aspettando il treno, dormirà dal padre stanotte, e poi Luigi chissà come sta, chissà se lo sa, cambio direzione, ritorno sui miei passi: Margherita ha bisogno di un ombrello. Mi affretto, sgomito, scanso i passanti, urto una signora. Margherita ha bisogno di ripararsi; Scalzo le auto, le gambe volano ma sembrano di pietra, scendo il sottopassaggio, direzione Battistini, la riconosco da lontano, si fermano le gambe insieme al cuore. Prendo fiato. Sia benedetta Roma e le sue inefficienze, e la sua metro vetusta e fradicia, che in venti minuti non è stata in grado di portarti via.
Mi avvicino a lei alle spalle, di soppiatto. Così come le avrà fatto il destino. Ti servirà l’ombrello, all’uscita della metro. Si gira a malapena, come se mi avesse sentito arrivare. Non mi dirai addio così. La abbraccio da dietro. Aveva pianto. Vieni, dormi da me stanotte, sono solo. Andiamo a bere un bicchiere di vino, le sfioro la mano.
Mentre sentiamo Memory? Mi dice e m’abbraccia, con la voce rotta e felice di rivedermi ancora, mentre tira su il moccolone col naso. Certo, e poi vediamo un film, le faccio, e ti cucino qualcosa. E comunque blocchi tua sorella.
Saliamo insieme sulla metro, mano nella mano, in silenzio. La direzione è la stessa. Troviamo posto negli unici due liberi, uno di fronte all’altro, e non ci diremo una parola per tutto il tragitto, mentre un bambino rom passa in rassegna tutte le tasche al suono della zampogna del padre. Non sapevo che i rom suonassero pure la zampogna.
Papà, come stai? Dormo fuori stasera. Da Gianluca, ti ricordi. Sì, sta bene. Sì, sto bene. Sto attenta. Sì certo, ti saluto sua madre.
E’ evidente che Luigi non sa niente.
Fermata Valle Aurelia, e poi ancora in silenzio verso il quartiere Trionfale, fino a Madonna del Pozzo saranno due chilometri. Passo svelto, tra pozzanghere e acqua che scorre dappertutto. E’ passata l’ora consueta della cena. Un gatto ha trovato rifugio precario sotto la pensilina di un distributore di benzina. Via Simone Simoni profuma di pioggia e nafta sempre più delle altre vie; per qualche strano motivo gli odori qui sono più intensi. Via Duccio Galimberti. Io abito proprio di fronte alla chiesa, e da bambino mi chiedevo sempre chi fosse stato Duccio Galimberti. Solo da grande, al liceo, scoprii che fu un partigiano, Medaglia d’Oro della Resistenza, e la cosa mi riempì d’immotivato orgoglio, come se fossi cresciuto a casa sua e non nella sua via. Come se si fosse trattato d’un parente e non d’un tizio del tutto sconosciuto per quanto eroico, io romano e lui un piemontese, che ha dato il nome alla strada dove ho casa.
E’ Roma, ma Trionfale non è la Roma di Piazza di Spagna. Siamo lontani dalle luci di via Condotti. La via Trionfale era la strada che percorrevano i guerrieri romani al ritorno dalle battaglie per ricevere gli onori del popolo. Una strada che ha visto sangue e sudore, e soldati mutilati far rientro a casa. Come quartiere risale appena all’inizio del novecento, ma è da sempre una sorta d’ingresso in città per chi proviene da Nord. E’ un quartiere tranquillo, dall’atmosfera solenne, dove è tangibile la mescolanza di antico e moderno, e vi si respira un’aria ricca di storia e dal passato importante. Era forte la presenza nel quartiere dei cosiddetti fornaciari, i fabbricatori dei mattoni utilizzati nell’edilizia dell’epoca, quando Roma divenne capitale d’Italia. Anche nonno era un fornaciaro. Sopra ogni cosa, per me Trionfale è casa.
Neanche una parola tra di noi, ma non è un silenzio che pesa; pare invece di quelli che costruiscono, che lavano, che lubrificano gli ingranaggi e addolciscono le asperità. Forse è complice la pioggia, questa pioggia che stasera scende via lieve come olio. Neanche una parola fin dentro casa, e il rumore argentino della chiave che armeggia nella serratura sottolinea l’intimità di questo prolungato e leggerissimo star zitti insieme. Forse i rapporti si costruiscono più coi silenzi che con le parole. E Margherita non è una donna loquace. Margherita una volta è stata tre settimane di fila a casa mia. Avevamo venti, venticinque anni.
Mettiti comoda, la casa è come te la ricordi. Ti vado a prendere asciugamani puliti, e qualcosa di asciutto.
A modo mio t’ho amata anch’io.
Cos’hai detto?
Niente, non trovo asciugamani piccoli, te ne dò due grandi, ok?
(mm)