Le tre metà ovvero le cose che ho capito
Se diventare adulti significa capire delle cose, sono a metà dell’opera. O meglio, sono metà dell’opera. La quarta metà, per l’esattezza.
Prima di diventare adulto, ho sempre creduto che un giorno qualcosa mi avrebbe suggerito il momento giusto per agire.
Poi ho capito che avevo soltanto perso del tempo prezioso ad aspettare l’ispirazione rivelatrice.
Ho realizzato che era il momento di partire e mi sono imbarcato in una storia seria, ho trasferito la mia residenza, cambiato luogo di lavoro, sposato una ragazza esotica e, insieme, molto mediterranea.
Sono venute al mondo due creature, una “luna” e una “sole” e, adesso, dopo tutto questo ho cominciato a capire finalmente qualcosa.
Niente che altri, prima di me, non avessero già capito ovviamente.
Che la vita è sogno, per esempio.
Che il mondo è profondamente segnato da compromessi con la coscienza, individuale e collettiva, per esempio.
Che ogni frammento di cielo è pur sempre un dono inestimabile.
Un repertorio completo delle cose che ho capito non sono riuscito ancora a compilarlo e, di sicuro, non è questo il momento per farlo.
Non è il momento per diverse ragioni molto significative, la prima delle quali è che sto aspettando l’ispirazione rivelatrice.
Non mi fraintendete.
Sono consapevole che certe cose ritornano e quindi che, probabilmente, sto commettendo lo stesso errore di quando non ero ancora adulto.
Ma stavolta sono pienamente in grado di capire il rischio cui vado incontro.
Questo mi garantisce che, se anche fosse lo stesso identico errore, ne potrà venire comunque per me e per chi mi circonda qualcosa di buono. Per esempio: evitare di leggere il mio repertorio potrebbe rivelarsi un concreto risparmio di tempo per la stragrande maggioranza del genere umano.
Eppure, prima di chiudere questo cerchio di pensieri, almeno un’altra cosa che ho capito devo consegnarla alla vostra paziente e molto caritatevole attenzione. E cioè: che nessuno è mai assolutamente una monade autoreferenziale.
Ho incontrato alcune persone che tendono verso una realtà di autocompiacimento disarmante ma questa tendenza, se non si traduce in patologia grave, non può mai essere assoluta.
C’è sempre bisogno, anche per i casi più tremendamente ottusi, di un momento in cui ci si consegni alla necessità di una relazione.
Non faccio esempi, né voglio aggiungere prove a sostegno.
Ma l’esercizio della relazione, in cui mi immerge la mia condizione esistenziale, mi ha già portato a esplorare altri lidi dalle forme singolari e a formulare pensieri più ardimentosi.
Qualcuno dei miei dotti conoscenti attribuirebbe tali pensieri alla mia inclinazione poetica.
Sono sempre d’accordo, a prescindere, con i miei conoscenti più dotti e in effetti anche stavolta, tutto considerato, avrebbero ragione sul mio conto.
Perché mi sono ritrovato a costeggiare l’idea di essere composto da più metà e qui, mi rendo conto, qualcuno direbbe che c’è del marcio in Danimarca.
Nel senso che a rigore siamo entrati nel campo del contro intuitivo e con la logica classica proprio non si riesce ad esplorare questo campo.
Perciò interviene la poesia, che complica e semplifica sempre tutto.
Le mie metà sono tre, in tutta evidenza, perché ogni giorno da circa tre anni mi sveglio e al mattino mi circonda un’onda vibrante di tre note: Terra madre, Luna danzante, Sole splendente.
Nessun essere umano che sia uno è, a rigore, somma di due ma noi siamo una cosa sola e siamo in quattro.
Mentre percorro in lungo e largo le traiettorie di questo sentiero tra le onde, con il mio guscio di noce a vele spiegate, obliquamente inquadro l’accaduto e l’accadente. E mi sovvien l’eterno.
Abbiamo tutti, ma proprio tutti, la costante fallace impressione di essere confinati dentro il solido involucro ben definito di epidermide che ci ricopre, ci definisce come individui e separa dagli altri.
Io muovo il mio involucro e questo mi dà il diritto di credere che tutto quello che sono finisca lì, o appena qualche millimetro oltre me stesso.
Ma ogni mattina, da tre anni a questa parte, per me non può essere così, perché io non finisco pochi millimetri oltre me stesso, piuttosto mi estendo almeno di parecchi metri, quelli che servono per esempio a rincorrere per tutta la casa e trucidare vespe, api, zanzare, mosche o moscerini, sbaragliare ragni e innocue farfalline, formiche o qualsiasi altro insetto di passaggio all’urlo anche solo di una delle metà di cui sono fatto.
Sollevo sopra le mie spalle la mia piccola metà e vedo più lontano, al di là della linea del mio limitato sguardo orizzontale, corro con lei oltre il mio tempo, la inseguo nei suoi anni avvenire, mi immagino superare la soglia del nuovo secolo.
Capovolgo a testa in giù la mia grande metà, prendendola dalle caviglie, e così insieme a lei guardo più vicino il vertice capovolto del mondo, il tetto dove poggiano i piedi miei, i solchi terrestri delle mie presunzioni, e insieme l’aria segreta e invisibile dove lei cammina, dove lei poggia i suoi piedi a un metro e mezzo circa dal suolo, in un mondo di favole e streghe, di giungle e balenottere azzurre.
Infine, incastro il mio abbraccio a quello di mia moglie, la mia prima e indiscutibile metà, che sempre mi accusa di non praticare alcuna forma di romanticismo nei suoi confronti e, così, posso chiudere gli occhi almeno per un po’, sapendo di essere finalmente a casa.
In altri termini, sono un uomo a pezzi e questo in fondo, per ironia del cielo, è proprio la cosa più importante che mi pare di avere capito.