Cataldo, il maestro e la mossa dell’arrocco
Rientrato a casa dopo la cena con don Vincenzo, Cataldo aspettò che Gera, Melino e tutti i suoi fratelli si fossero addormentati. Una volta fuori, cominciò a risalire le viuzze avvolte nel buio della notte e raggiunse il monte Taborre.
Il cielo carico di stelle sembrava accarezzare le pietre della torre civica.
I riflessi dell’albedo lunare si poggiavano sulla sommità della torre, levigando il metallo delle lancette dell’orologio posto lassù in alto.
La debole luce della luna fissava il giro del tempo.
Erano le tre meno un quarto del 29 aprile del 1787.
Da una tasca interna del gilet, Cataldo prese la chiave della piccola porta d’accesso alla scaletta della torre.
La toppa era incrostata di ruggine.
Inserì la chiave con delicatezza. Con sua meraviglia, aprì e richiuse senza fare il minimo rumore.
Il silenzio della notte, lì dentro, sembrava addensarsi attorno ad ogni singola particella d’oscurità.
Cataldo sapeva che il primo stretto gradino di quella scala era solo a un passo di fronte a sé.
Cominciò a salire, immergendosi ancora di più dentro quel buio.
La mano sinistra poggiata alla parete, un passo dopo l’altro, raggiunse la botola che lo separava dalla cinta merlata della torre.
Uscito sul terrazzo fece un giro completo su stesso per ricapitolare attorno a sé tutto l’orizzonte.
Fra qualche ora, poco prima del sorgere del sole, il maestro lo avrebbe raggiunto.
Aveva tutto il tempo per raccogliere i propri pensieri e prepararsi a quell’incontro. Aveva bisogno di respirare a fondo tutta l’aria della notte.
La luna, a un tratto, venne tagliata a metà da una bava sottile di nuvola che si era formata più in basso e stava risalendo rapidamente.
Cataldo si distese guardando la volta del cielo, per osservare quel singolare incrocio di vapori e corpi celesti. Pochi secondi dopo, il sonno lo avvolse.
Goethe, come d’accordo, lo raggiunse alla torre prima dell’alba. Cataldo sapeva che la prima mossa sarebbe toccata al suo illustre amico.
– Allora, Cataldo, sei in debito con me. E sono qui adesso per riscuotere quanto promesso.
La chiave di tutto, pertanto, si troverebbe qui a Caliruni. Il segreto della tua isola giace da qualche parte tra i vicoli di questo paese. Ora è il momento giusto per rivelarlo a questo povero cercatore di verità. Dimmi, caro, dove è nascosta la chiave per aprire il segreto di questa terra?
Cataldo ammirò il sorriso e la dolce ironia, con cui il filosofo gli aveva rivolto quelle parole.
– L’unica chiave che ho, in verità, si trova qui nel taschino del mio gilet e l’ho appena usata per farti salire su questa torre, amico mio.
Non so se serve ad aprire segreti profondi, ma quello che vedi adesso di fronte a te è per me più di uno scrigno prezioso. Ho giocato d’azzardo, lo ammetto. Ho promesso troppo, senza alcun dubbio. Il desiderio di vedere quest’alba con te, mi ha tradito.
Sentivo che questo saluto alle mie radici avrebbe avuto un sapore diverso da quello di dieci anni fa.
Volevo solo che tu mi accompagnassi.
Il filosofo lo ascoltava adesso con un’attenzione quasi commovente.
Cataldo se ne accorse e si fermò un attimo, prima di continuare.
– Adesso conosco meglio i progetti del Principe, ma c’è qualcosa che continua a sfuggirmi.
– Che cosa intendi?
– Credo che il viaggio in tua compagnia sia per me l’inizio di una missione più lunga. L’ultimo apprendistato prima di assumere il ruolo di segretario personale di Sua Eccellenza.
Partirò per Parigi solo pochi giorni dopo la tua partenza per Weimar. A Parigi, i Borbone di Napoli hanno da consolidare alleanze e affari. Il Principe ha delle ambasciate da portare a termine, me ne ha parlato. Eppure c’è qualcosa che non mi torna. Comunque sia, è certo che non rivedrò presto Caliruni.
Il maestro aveva annuito quasi impercettibilmente.
– Cataldo, la vita sembra nascondere sempre qualcosa di più di quello che vediamo. Anch’io, come sai, ho sempre l’impressione che manchi un pezzo del quadro. Il re sulla scacchiera si nasconde spesso, dietro un arrocco difficile da superare.
Non scherzavo prima, quando ti chiedevo di rivelarmi la verità di questa terra. Perché i miei occhi vedono lampi di verità, ma mai la verità tutta intera. Il re sfugge agli attacchi, protetto da torri potenti. Sapessi quante mosse ho tentato per aggirare le sue difese!
Cataldo si accorse di essere impegnato da molto tempo nello stesso gioco: una partita a scacchi con la verità. La mossa della torre inchiodava anche il suo cuore e proteggeva il re dallo scacco.
In quel momento una rondine saettò sopra le loro teste e per seguirne il volo, Cataldo si voltò verso l’amico.
Il maestro venne raggiunto, nello stesso istante, da un raggio di luce che dal monte Babbaurra si era lanciato in tutte le direzioni possibili. L’alba stendeva le sue braccia attorno alla collina di Caliruni.
I due rimasero in silenzio per qualche minuto.
Goethe sembrava ascoltare quel silenzio con la stessa intensità con cui aveva poco prima dichiarato il suo amore per la sempre fuggente verità.
Cataldo sentì con forza che quei campi all’orizzonte, le zolle lavorate, i fianchi di quelle colline, la povertà delle case, il respiro caldo di quella terra ancora quasi del tutto addormentata, stanca e così sofferente per le tracce del tempo, veramente tutto questo poteva essere il centro pulsante, nascosto e vitale, della bellezza siciliana.
Ma sentì anche di non dover dire nulla all’amico poeta. Il silenzio era la parola più forte che potesse pronunciare in quel momento.
Caliruni stessa era come un granello di quella sostanza silenziosa, quel fenomeno originario, sui cui tutto il resto si adagia per riposare e risplendere.
L’opacità misteriosa su cui si radica la vita.
L’anima imprigionata nello splendore delle coste, delle montagne, dei colori e sapori di tutta l’isola, era un’anima di sale e di pietra. Qualcosa di duro, tagliente. Un’anima che brucia al contatto con gli occhi, un’anima che taglia e insieme risana e ricuce.
Tutta questa luce che Cataldo credeva di vedere adesso, riverberava in segreto consegnandosi ai raggi del sole sorgente. La torre proteggeva dall’alto l’eccitazione di quei pensieri. La misera, folle, solitaria lontananza di tutti quei pensieri, si era risolta in uno spazio vuoto di parole.
In quel vuoto immenso, ma pieno come la vita, a Cataldo sembrava di essere diventato l’unico uomo della terra, il primo e l’ultimo.
Non esisteva più niente dentro di lui e fuori di lui. Non c’era più un dentro e un fuori.
L’orizzonte del tempo e lo scorrere dell’Universo si erano annullati improvvisamente. Rimaneva lì, stesa sulla superficie del nulla, la verità tutta intera.
Per l’episodio precedente precedente:
Cataldo, la chiave di tutto e il profumo dei tigli
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