La coerenza è una scelta
C’era un unico posto in cui non solo l’estate non era arrivata, ma ancora i ghiacciai della lotta faticavano a sciogliersi. Si trattava di quell’unico posto in cui i cambiamenti climatici – nella direzione del calore – non solo sono auspicabili, ma addirittura, per ottenerli, in molti frequentano corsi di miglioramento personale per provare a dribblare gli iceberg emotivi che possono provocare, in caso di impatto quasi sempre frontale, squarci irrimediabili nella carena dell’umano fluire, al punto da contribuire a creare relitti piuttosto che velieri naviganti il mare dell’esistenza.
Il lavoro da anni era sempre lo stesso: il tentativo di gestire l’emotività con la consapevolezza, e la consapevolezza doveva trarre la sua forza motrice dall’accettazione dell’assunto, riconosciuto a oltranza da ogni esperto della materia, che si è come si è. E in virtù di questo, a parte accettarsi, la sfida era tentare di attuare la migliore versione di sé, dedicandosi, col solo calore del fiato affaticato dai percorsi sempre più ripidi, a sciogliere stalattiti e stalagmiti rendendole un mite e placido lago dove far naufragare i malumori e le umiliazioni subite.
Quell’estate era giunta al culmine della sua esibizione
All’interno di questo preciso panorama emozionale, le era stato tacitamente chiesto di sopportare luoghi e persone per un certo tempo, perché queste non si accorgessero della sua necessità di correre via il più lontano possibile da quell’epidemia di giudizi moralisti e senso di superiorità comportamentale e pettegolezzo e frasi standard dal facile sottinteso, tipo: “Sono gli altri quelli che sbagliano”, che portano ad altri ancora più facili sottintesi: “Se però quell’errore lo faccio io, non è più un errore ma una giusta scelta”. Il massimo dell’egoismo ipocrita insomma, ancora più tossico dei funghi velenosi che almeno, c’è da dire, a volte, hanno un aspetto gradevole che abbellisce l’ambiente.
Le era stato tacitamente chiesto di sorvolare, di fingere di non essere a conoscenza, di non sapere dell’odio nei suoi confronti, della paura che una donna libera come lei procurava ad animi incancreniti in sopravvivenze insipide e prive di coraggio, di fare buon viso a cattivo gioco, sapendo perfettamente che non sarebbe stata la sola a mentire: anche i suoi interlocutori avrebbero nientemeno finto il piacere di incontrarla, di vederla, di saperla lì intorno. Non c’era nulla da fare: la follia di fingere di piacersi, mentre soddisfaceva pianamene quella gente lì, a lei stava stretta al punto di esacerbare ogni volta la sua visione positivistica sulle possibilità di cambiamento umane. Lei continuava a non capire per quale motivo il non piacersi, come il piacersi, non poteva essere benedetto e accettato.
Il massimo dell’egoismo ipocrita insomma
Molta gente non si piace – punto! – è per questo che c’è la libertà di scegliersi o non scegliersi. Perché fingere di essere felici di incontrarsi? Quale vantaggio comportava quel teatrare di così infimo grado? Accettare di “far finta di nulla”, o di “fare finta” in generale, avrebbe causato una temporanea implosione che si sarebbe tramutata in futura esternazione rabbiosa. Non accettare avrebbe invece significato malumori presenti (per incapacità di mediare con gli esercenti del male) per una futura presa di coscienza del coraggio mostrato di esser stata se stessa.
I due pesi, posati sulla bilancia del discernimento, non lasciarono spazio a dubbi: il piatto pendeva decisamente, senza tennamento alcuno, sul versante coerenza. E con la fatica che la coerenza richiede, molta più che la superficialità e l’approssimazione, coerenza fu. Il disagio immediato divenne presto soddisfazione per la solida tempra dimostrata e per l’onestà intellettuale che non è altro che un fatto di scelte. Scelte né giuste né sbagliate, semplicemente le più aderenti ad un Sé dall’ambizione grande di essere totale e fedele alla sua più profonda natura.