Umidità e memoria
Il 20 aprile del 1945 il giardino zoologico di Berlino aprì come tutte le mattine. Nella capitale assediata dai sovietici i telefoni funzionavano normalmente, si stampavano i giornali, si produceva birra e distribuiva latte. Per quanto sia possibile immaginare i pensieri che affastellavano la mente del guardiano dello zoo, del tipografo, del birraio e del lattaio in quel venerdì primaverile, più difficile è capire cosa di quella giornata sia rimasto nella loro memoria di lì a poche settimane. Sempre che esistessero ancora, s’intende.
A volte mi sovviene l’idea che l’umidità in questa città possa uccidere. Aggrappandosi ai capelli, ai peli, alla barba. Penetrando i pori, incistando l’epidermide, incastonandosi nelle ossa. L’umidità in pianura padana è un fattore fisico e mentale. La senti addosso, si rivela alle narici e deposita un velo oleoso sulla lingua. E finisci per immaginarla, figurarla, talvolta anche antropizzarla. Quella merda dell’umidità. Quella cagna dell’umidità. L’umidità riflessiva che sa dove colpire. L’umidità sadica che stringe la mano sul trapezio, lo irrigidisce, gode dei tormentati e inutili esercizi di sblocco della cervicale. I bambini sono esenti dall’umidità? Si, no, forse. Prendiamo questo infante dinnanzi a me. I capelli biondi e la giacca a vento rossa, il pallone della decathlon e il muro delle Poste. Diceva un tizio che il piccolo calciatore talentuoso lo riconosci dal modo di stoppare la palla. Questa testolina bionda ha le gambe rigide e il pallone, di ritorno dal muro delle poste, incoccia sullo stinco e scappa imbizzarrito. Un po’ come il cavallo quando capisce che il culo che gli cinge la schiena è privo di manico. Ma, tranquillo, non siamo qui a fare scouting. Questa non sarà la tua strada come non lo è stata la mia né di nessuno che conosco. Amen. La senti insomma l’umidità?
Sempre il giorno 20 di aprile del 1945 un aereo di linea partì da Berlino alla volta di Stoccolma come da orario. La Germania era oramai ridotta alla sola Berlino. Nelle campagne attorno alla città era assiepato un contingente enorme di truppe dell’Armata rossa. Nel pomeriggio fu interrotta l’erogazione dell’energia elettrica e si bloccarono le pompe dell’acqua.
In verità un orecchio esperto come il mio l’umidità la percepisce anche dal suono del pallone che impatta contro il muro. Ma poi, a dire il vero, ciò che mi basta è sfiorare la copertina di questo libro con le dita, appoggiare i palmi sulla panchina di ferro, afferrare le ginocchia. Gli Inuit hanno tante parole per definire quella che noi chiamiamo semplicemente neve. La Siberia si è prestata a divenire aggettivo per definire il freddo. Del caldo africano non ne parliamo. Noi della grande pianura alluvionale, nel nostro piccolo, abbiamo imparato a riconoscere il giusto grado di umidità per esporre i salumi.
Ad ogni modo non ho memoria dell’umidità durante l’infanzia. Ce n’era di più? Di meno? Ricordo di averla vista un giorno dalla finestra. La mia piccola televisione gracchiava interferenze e notizie sportive. Le mie mani ai termosifoni, il mio naso al vetro della finestra. Oltre il vetro un condominio beige, ma prima ancora dell’intonaco una strana macchia scura. Chiesi a qualcuno nella casa cosa fosse. Umidità, mi fu risposto. Che strano, è probabilmente l’unica cosa che ricordo di tutto quel mese. Non ricordo nemmeno il mese e l’anno, a dire il vero. Però ricordo questo. L’umidità si fa memoria, persiste.
Il 21 aprile 1945 le prime granate sovietiche esplosero nel centro di Berlino. I mezzi pubblici avevano smesso di funzionare, le serrande dei negozi chiuse. Il guardiano dello zoo, il tipografo, il birraio e il lattaio cercavano ora rifugio nei tunnel della metropolitana. La città stava morendo. Del giorno precedente non vi era più memoria.
Cosa rimarrà a questo bambino con la testa bionda e la giacca rossa di questa giornata? Quante giornate finiscono nel dimenticatoio. Quante parole, quante espressioni, quante frasi, quante persone. Fagocitate da altri eventi, spazzate via a primavera, formattate da un sistema sovraesposto a pensieri, parole, immagini e quindi assai selettivo. E del resto rimarrà qualcosa a me di questa panchina sverniciata? Della copertina di questo libro? Del pallone bianco e blu marcato Kipsta? Non lo so. Tra le cose che non ci è dato sapere rientra anche il funzionamento dell’algoritmo che presiede la memoria.
Una donna sulla quarantina si avvicina contrariata al bambino, dice qualcosa ad alta voce riguardo quei ciuffi madidi di sudore sulla fronte e infila una cuffia sulla testa bionda dell’infante. Che fa una smorfia contrariata (e io con lui). Poi tenta di togliersi il fastidioso orpello, ma le mani della donna cingono con forza il copricapo. E non c’è niente da fare. Un giorno, forse, quando i capelli saranno virati al castano o forse caduti e la giacca rossa sarà stata gettata, riciclata e nuovamente assemblata in chissà quale altra forma, il bambino ricorderà di quella volta in cui fu costretto a indossare una cuffia di lana sui ciuffi sudati. E ricorderà quel suo primo incontro con la famigerata umidità, per l’occasione penetrata in una cuffia incautamente calzata da una madre apprensiva, che lo accompagnerà per tutti i suoi anni padani. O forse non ricorderà niente di tutto ciò e l’unica memoria di quelle ore saranno queste poche righe. Se un server avrà la benevolenza di mantenerle in vita, s’intende.
Prima che chiudesse definitivamente le trasmissioni, l’ufficio telegrafico di Berlino ricevette un ultimo messaggio. Proveniva dalla lontana e amica Tokyo. Vi si leggeva soltanto: Buona fortuna a tutti voi.
Non ci è dato sapere quale fosse il grado di umidità nella città prima che si scatenasse l’inferno.