Ricordo il tuo nome
Il nome: quella sequenza di lettere che qualcuno sceglie per noi, un numero seriale che piano piano impariamo a fare nostro, sperando sempre che prima o poi qualcuno, ascoltando il suono di quelle lettere, ricordi il nostro ciuffo di capelli, l’ultima chiacchierata, quel libro comprato insieme e via dicendo.
Eppure…
Quante mani ho stretto dicendo il mio nome distrattamente e dimenticando subito quello di chi avevo davanti?
Può capitare, è normale, soprattutto se ci si presenta in gruppo e in contesti rumorosi. Eppure un nome non si dovrebbe scordare mai.
Me lo ha insegnato Amélie Nothomb, che ricordare i nomi è il primo modo per salvare vite. Ognuno ha il suo superpotere e quello dell’autrice belga è proprio quello di tenere a mente il nome di battesimo di tantissimi dei suoi lettori. Se riesce, collega al nome anche qualche discorso fatto fra una foto e una dedica a fine presentazione, e se capita di incontrarla ha piacere di dare sfoggio della sua memoria da elefante. Non è vanità: Nothomb sa che basta chiamare il lettore per nome per creare intimità far sì che in quel momento ci siano solo loro due sulla faccia della terra. Sa che il lettore che vive per la prima volta questa esperienza non si aspettava di avere un simile rilievo nella memoria di un’autrice di fama mondiale. Il superpotere di Amélie Nothomb è ricordare a memoria. O meglio, par coeur, by heart, come dicono altrove, esplicitando il legame fra memoria e affettività.
Pochi sanno dei sensi di colpa che sento quando mi sfugge il nome di qualcuno dei numerosissimi richiedenti asilo con cui ho avuto a che fare in Veneto in questi due anni, mentre loro si ricordano il mio. Vorrei dir loro che non sono la Nothomb né ho i suoi poteri, ma finisco sempre per frugare negli anfratti del cervello sperando di trovarci qualcosa che dica ai ragazzi che la mia non è noncuranza. Frugo nel cervello perché è alla razionalità che voglio dare la colpa e non al cuore, per quanto sia evocativa l’espressione usata in altri idiomi.
Mia mamma mi racconta del giro serale con i compagni della comunità di S. Egidio a Roma, fra Trastevere e Monteverde. “Per ricordarmeli ho scritto su un foglio tutti i nomi. È importante ricordarsi tutti i nomi”, dice. E io mi immagino perduta a Macondo nella lotta ad armi impari contro l’oblio. Cartelli ovunque ad indicare la realtà – e nominarla – mentre chi ci vive non sa più farlo.
Anche Chiara Valerio – e probabilmente molti altri, ma lei in maniera instancabilmente appassionata – mi ha sempre stupito in questo senso: si ricorda nomi, date, definizioni, stralci di libri. Ascoltarla mentre declama brani mandati a memoria mi lascia sempre piacevolmente sorpresa e mi prometto che prima o poi approfondirò la questione, sia con Amélie che con Chiara. Magari colorando a matita i loro superpoteri emerge, per contrasto, il bassorilievo della mia lacuna di distratta seriale. Mi immagino a scartavetrare storie altrui sperando di trovare residui arrugginiti della mia.
E penso: “My name la Victor, you know what’s the meaning of my name?”. Un nome è qualcosa a cui aggrapparsi quando il viaggio e la disperazione costringono a spogliarsi di ogni altro effetto personale, ma se non c’è qualcuno che se lo ricorda si scivola via. Il nome è un tentativo di attrito con chi si ha intorno, uno scalfirsi a vicenda, e a volte mi sembra che la mia superficie sia così impermeabile da farmi paura.
Deve essere rassicurante sapere di poter contare sulla propria memoria sempre e comunque, forse è per questo che io alcune certezze non penso che potrò averle mai.
Mi piace convincermi che non sia disinteresse quello che mi fa dimenticare la trama dettagliata di alcuni dei miei libri e film preferiti e che trattiene solo l’impressione finale.
Vorrei urlare al mondo che si può voler bene ed amare anche distrattamente con la stessa intensità di chi lo fa con ogni briciolo di attenzione ma taccio perché a volte non ne sono sicura neppure io. Mi critico senza pietà e infine decido, per darmi un’ultima chance, che forse si può tracciare una linea netta che distingua le persone che si ricordano e quelle che hanno bisogno di essere ricordate. Che la salvezza in fondo la cercano entrambe in modo diverso: chi si affida alla memoria altrui per misurare la propria dignità e chi invece agli occhi estasiati di chi quella salvezza la riceve. Ma come tutte le classificazioni binarie, anche questa teoria lascia il tempo che trova. D’altronde, se non posso aggrapparmi all’elefantesca memoria, dovrò pur crearmi qualche altro appiglio.