La Dea Blu – nascita di un mito
di Francesco Colonna e Annalisa Insardà
Ipotetiche storie, vaghe leggende e verosimili miti sulla nascita di Diamante.
Nessuno in realtà conosce bene la sua storia. Quella di Diamante, dico. E comunque la parola “storia” è quella meno adatta, perché la storia prevede la presenza di fatti accaduti e ampiamente documentati. E in realtà anche il termine “leggenda” diviene un termine vago, perché si perde in un passato improbabile, dove l’impossibile si veste di autorevolezza per acquistare credito, per aspirare al vero.
Capita però a volte, che l’incerto, il dubbio, l’ipotetico, diano dignità a un racconto che, seppure senza basi certe, permette di costruire una fantasia che poi permane nella mente degli uomini. Più nell’anima che nella mente. E questo è lo scenario mitologico. E il mito ha il pregio di non avere bisogno di spiegarsi e di portare prove di sé, della sua esistenza. Qui sta la sua autorevolezza, perché la sua origine non trova esistenza dai contesti e dalla memoria, ma dell’intimo degli uomini che contribuiscono a crearlo, e quindi è indistruttibile e inevitabilmente vero. E quelli più solidi sono i miti delle origini, delle fondazioni. C’è da dire però che anche la storia, nonostante sia “storia”, ha bisogno delle leggende… e anche le leggende hanno bisogno del mito… e anche il mito ha bisogno di ricerca, di collegamenti, di legami, di parentele. E queste cose tra di loro sono collanti necessari per offrire delle “verità presunte” che rendono fascino e bellezza alle “verità certe”, rafforzando il nostro bisogno di ispirazione e la nostra sete di eternità.
Ma veniamo a noi. Diamante. Certo è che Diamante sia un luogo che vide giungere in tempi lontani greci e bizantini, per poi svilupparsi nel rinascimento. Ok, tutto giusto, tutto perfetto, tutto documentato, ma l’origine? Il lampo dell’esistenza di Diamante, quando colpì questa terra?
Teti era la figlia più bella di Nerèo, una delle molte meraviglie che il mare ha creato e donato. Come Venere del resto. A discendere da quella nereide, vi sarebbe un essere del quale non ci è stato tramandato l’antico suo nome, ma solo quello ormai graniticamente scolpito nella memoria popolare, la Dea Blu. Poiché figlia delle onde, anche lei aveva ereditato un carattere simile a quello del mare, impetuoso e profondo, spesso calmo ma mai domo, in perpetua combutta col vento, che spesso lo rende un gigante e a volte lo accarezza docile. Con queste vestigia era improbabile nascesse una dea accomodata e paga. Anzi, la Dea Blu, bella come la sua antenata, mostrava un animo tormentato e impaziente, sempre alla ricerca di qualcosa, forse di un senso. Infatti, la dea cercava disperatamente di avere un suo proprio ruolo sulla terra. Non cercava potere, gloria, fama, no! Cercava solo un modo perché il suo nome restasse nel tempo, anche oltre le epoche della storia.
la Dea Blu, bella come la sua antenata, mostrava un animo tormentato e impaziente
E questo, signori miei, creava non pochi problemi a coloro che l’avevano generata, perché cercavano di spiegarle – come ad un figlio ribelle e che non vuol sentir ragioni – che lei era già immortale. Ma lei non dava retta, mostrava di non capire, provocando le ire sia degli dei che della logica lineare.
“Vuoi essere immortale? È questo il tuo desiderio più grande? Ebbene sei già immortale. Sei una dea!” Il concetto era semplice alla fine; quali strani numi possedevano la sua ragione?! Ma il fatto era che lei percepiva uno strano senso di inadeguatezza per quel dono divino. Era insoddisfatta dell’idea di un’immortalità vuota, avuta in dotazione a prescindere, perché nata da dei. Un’immortalità senza mordente, senza passione, e probabilmente anche senza memoria. Non le bastava l’immortalità quasi anonima di una nereide qualunque, pretendeva una eternità di bellezza, riconosciuta in ogni tempo, ricordata da ogni uomo, cantata da ogni lingua. Ed era ostinata nel suo proposito. Decise perciò di lasciare i luoghi noti e familiari per dare un’opportunità alla sua ambizione. E cominciò a scorrere febbrilmente lungo le coste mediterranee per un tempo indefinito, osservata con un certo stupore dallo stesso Nettuno che più volte le fece notare che la bellezza del mare – ma soprattutto la sua appartenenza al mare – non doveva indurla a sottovalutarne i pericoli; ma lei, sorda a qualsivoglia forma di prudenza, peregrinava senza soluzione, senza mai arrivare ad alcunché. Incontrava umani, incontrava altre divinità, ma da nessuno traeva il gusto e il desiderio di approfondire, di conoscere i modi per acquisire un futuro perenne.
Ma ecco che appoggiatasi, per riposarsi dal suo vagare, sulla piccola isola di Cerillae, scorse lì vicino, un luogo che attrasse i suoi occhi. Decise di approdarvi per meglio comprendere. La bellezza di quella immagine inebriante e suggestiva, era rafforzata dall’assenza di umani: onde, vento e uccelli erano le uniche voci. Si aggirava tra piccole dune e cespugli, restandone affascinata ad ogni passo: quella terra la ispirava, le suggeriva che forse era finalmente arrivata dove realizzare il suo desiderio, eppure… nulla di più. Cioè percepiva sensazioni forti, attraenti, percepiva soluzioni vicine… ma niente. Questa sensazione rimaneva sospesa, non veniva suffragata da nessun segno che le confermasse che il suo sentire corrispondeva alla realizzazione del suo destino. Evidentemente il suo destino non era lì.
Presa questa consapevolezza, e con una nota di forte delusione per aver forse sfiorato quello che davvero desiderava, pensò di riprendere la via del mare. Ma richiamate a sé le onde che le avrebbero fatto da veliero in quella nuova, ennesima partenza, sentì, da lontano, un pianto soffocato e ininterrotto. Si fermò. Rimase intenta nell’ascolto e, guidata da quel suono della disperazione, si mise alla ricerca della sua provenienza. Del resto si sa, la curiosità è quella pregevole virtù – a volte anche morboso vizio – che accomuna gli esseri umani con quelli divini rendendoli uguali. Vide un cespuglio che pareva animato per come s’agitava. Scorse un giovane uomo, rannicchiato e scosso da continui sussulti.
“Chi sei?” gli chiese la Dea Blu.
“Diamanto” rispose il giovane.
Vedendolo in quell’arnese la Dea sorrise ironica: “Non mi pari un ferro poi così duro, Diamanto”.
Anche lui sorrise, triste, per quel nome che ricordava enorme forza, ma che ora stava tradendo tanta fragilità.
“Qual è la tua storia?”, chiese ancora la Dea.
Non mi pari un ferro poi così duro, Diamanto
E Diamanto, ripresa un poco di fiducia di fronte a un essere che gli pareva divino, raccontò di essere rimasto l’unico superstite della sua famiglia che viveva nell’entroterra più remoto di quella costa. Era sopravvissuto all’ira degli dei dell’Olimpo che suo padre Kiriàco aveva ingenuamente sfidato urlando al cielo la bontà delle sue terre coltivate, sostenendo che neppure gli dei avrebbero potuto fare meglio. Diamanto non era lì quando le nubi nere, per vendetta o per rappresaglia contro l’ennesima forma di tracotanza umana che più volte scatenò guerre e carestie – come anche oggi del resto – scesero quasi fino a terra e si aprirono. Gonfiarono il generoso fiume che da sempre lambiva quelle terre rendendole ubertose, fertili come incantevoli madri amate da valorosi guerrieri, trasformandolo da prezioso alleato in ostile nemico che, impetuoso, e dimentico delle passate complicità, distrusse tutto, i campi e chi li aveva coltivati. Lui, Diamanto, che di quel fiume, per gratitudine, portava il nome tanto era stato propizio agli uomini, tornato da un suo viaggio e vista l’immane tragedia, disperato e timoroso di altre vendette, fuggì verso il mare. E verso il mare proprio perché questa immensa distesa azzurra che si univa in lontananza al cielo, gli procurava una tensione alle viscere di grandezza e possibilità, capace di rasserenare anche l’animo più sconvolto e addolorato.
“E ora cosa vorresti?” – chiese ancora la Dea – “Cosa vai cercando?”.
“La pace vorrei. E bellezza. E vorrei vivere coperto dal colore della serenità. Il blu. Il colore del mare”.
Rimasero muti. La Dea non riusciva a spiegarsi perché si sentisse così terribilmente turbata. Non replicò. Rimase immersa nella profondità divina della sua natura, cercando una strada per lenire sì tanto dolore che questo giovane andava piangendo. Guardava l’orizzonte che lo stesso Diamanto guardava, perso e disperato. L’orizzonte. L’impalpabile cicatrice cucita a suggello di alleanze misteriose tra cielo e mare. Così vicino ma irraggiungibile. Visibile e sfuggente. Prodigo di promesse e menzognero.
Il silenzio raccolto della Dea sembrò a Diamanto incapacità empatica. Del resto lei era una Dea, che ne sapeva lei delle sofferenze e del dolore degli uomini, che ne sapeva lei di ambizioni e desideri, di progetti e fallimenti, di paure e destini avversi?! La guardò. Le disse: “Hai sembianze divine. Non puoi capire cosa vuol dire perdere la propria casa e i propri cari. E’ tutto finito. Le mie terre, la mia famiglia. Quando anche io morirò, non ci sarà memoria del nostro passaggio, del nostro amore, della nostra fatica. Non puoi capire né cosa sia la morte né l’oblio che essa porta. Esserci stati e non essere mai più ricordarti. Che senso avrà avuto dunque essere stati qui!?”.
L’impalpabile cicatrice cucita a suggello di alleanze misteriose tra cielo e mare
La Dea Blu lo guardò assorta. Lo sguardo su di lui e la mente nel suo originario proposito di valorosa eternità. Gli disse: “Vorresti avere una terra, ma che sia per sempre? Molto oltre la tua vita e quella degli uomini? E davvero vorresti vivere avvolto nel tuo colore preferito?”
Diamanto sorrise quasi schernendo la domanda: “Sì, lo vorrei. Ma tu dimentichi che io sono un essere mortale. Finirò presto e finirò nel dolore lacerante di chi non ha più nulla e nessuno né da amare, né da accogliere”.
“Tu dimentichi invece – replicò la Dea – “che io non sono di questo mondo e che i miei poteri non sono quelli umani. Aspettami qui e non versare più lacrime”.
Si rivolse agli Dei dell’Olimpo, con la grande e incrollabile certezza di avere individuato finalmente la soluzione per la sua ambizione di grandezza ed eternità. Li pregò di concederle di poter essere per sempre azzurra – com’era la sua natura del resto – potendosi però fondere con quella terra, chiamando a farne fare parte anche il giovane Diamanto. Era sicura la Dea, totalmente convinta di avere trovato il luogo della sua eterna destinazione. Ecco che quel posto che aveva sentito come “probabilmente” il suo posto, all’incontro coi desideri più nobili del genere umano, divenne “certamente” il suo posto.
Tornò da Diamanto come lampo di luce azzurra. Lo abbracciò, lo avvolse e lo strinse. Insieme divennero Diamante. Divennero terra e mare ambite dagli uomini di tutte le epoche, generatori di arte e meraviglie, templi di venti e di maree, di cibo e di ristoro, di giustizia e di bellezza, destinazione per molti, accoglienza per tutti. Ed è ancora oggi così, Diamante: terra e mare di prestigio e privilegio. Esempio di prosperità e gioia, di scambio e unione. Amata dagli uomini, baciata dagli dei. Diamante è sempre stata così. Diamante così sarà per sempre.